La destra di Fini non usi gli apparati
D’Alema sulle violenze di Genova: c’è il sospetto che si sia voluto mandare
un segnale al Paese.
Sui fatti di Genova e le roventi polemiche che continuano a suscitare,
Massimo D’Alema tiene a precisare quali siano stati lo spirito e anche la
lettera del suo discusso intervento alla Camera, ma tutto fa fuorché
abbassare il tiro: «Non ho mai detto che l’Italia è come il Cile di
Pinochet, non ho mai chiamato in causa le forze dell’ordine nel loro
complesso. Ho parlato, e continuo a parlare, di episodi di stampo cileno di
cui sono stati protagonisti gruppi ristretti. Ma mille testimonianze ci
dicono che si tratta di episodi inauditi. Non lo dico io, lo dicono la
stampa di tutto il mondo e, in Italia, l’Unione delle camere penali, che a
Genova ci sono state pesanti violazioni dei diritti civili...».
E questo è sicuramente gravissimo. Ma basta perché un ex presidente del
Consiglio che il G8 a Genova lo ha fortemente voluto parli di fascismo?
«Il governo, a Genova, ha dimostrato una straordinaria incapacità di gestire
l’ordine pubblico: e non so se sia più grave o più ridicolo pensare di
cavarsela affermando che i vertici delle forze dell’ordine sono stati
nominati dal centrosinistra. Quanto al fascismo: se un manifestante
arrestato viene malmenato fino a quando non grida "Viva il duce", di che
cosa d’altro bisogna parlare, anche in senso tecnico? Io temo che questi
episodi non siano solo inammissibili intemperanze, ma abbiano un segno
politico chiaro».
Vuol dire che, secondo lei, ci sono stati dei mandanti?
«Voglio dire che la destra estrema di origine neofascista, e sto parlando di
Alleanza nazionale, da tempo ha una rete di rapporti con gruppi e settori
all’interno delle forze dell’ordine. Quelli che a Genova si sono comportati
come si sono comportati si sono sentiti autorizzati a farlo perché al
governo c’è la destra? Oppure si è voluto, appunto, mandare un segnale
all’opinione pubblica e al Paese? Questo è il sospetto che avvelena il
clima...».
Lei sta parlando del rischio concreto di un uso di parte delle forze di
polizia e degli apparati...
«Esattamente. E aggiungo che in democrazia non si può confondere il diritto
di chi ha vinto le elezioni a governare con l’uso di parte degli apparati.
Quello che mi stupisce di più è proprio Fini: possibile che non capisca come
e perché, agli occhi di un cittadino normale, un sospetto simile si appunti
molto più su di lui che su Berlusconi?».
Voi avete presentato una mozione di sfiducia contro il ministro degli
Interni e avete anche chiesto, nello stesso tempo, un’indagine conoscitiva
del Parlamento. Non sono due richieste contraddittorie?
«Noi abbiamo depositato la mozione di sfiducia dopo che la maggioranza aveva
risposto di no alla richiesta non di una commissione d’inchiesta dotata di
straordinari poteri, ma di una semplice indagine conoscitiva delle Camere
che sarebbe stata subito promossa in ogni democrazia occidentale. E sto
parlando della stessa maggioranza che, contemporaneamente, vuole istituire,
per intimidirla, ben tre commissioni d’inchiesta sull’operato
dell’opposizione...».
Capisco. Ma a Genova non c’era solo la polizia. E non si può proprio dire
che l’atteggiamento della sinistra verso il cosiddetto popolo di Seattle, e
sto parlando in primo luogo del suo partito, sia stato lineare.
«Questo movimento è una realtà nuova e complessa con cui tutti saranno
costretti a misurarsi a lungo. Ci sono gruppi francamente eversivi, e non
penso solo al Black Bloc, che vanno combattuti con durezza, ma anche con
intelligenza: una repressione cieca è, per loro, la migliore incubazione,
serve solo ad allargarne l’area di consenso. Ma il movimento, nel suo
complesso, è un fenomeno reale, che non può essere criminalizzato in
generale. Questo tipo di globalizzazione rende il potere sempre più lontano
da ogni forma di controllo. Esserci, far sentire la propria voce, quando il
potere si riunisce è anche l’espressione di un bisogno democratico
elementare».
Ma questo era vero anche quando a governare, in Italia, era quella sinistra
che continua a guidare l’Inghilterra, la Francia, la Germania...
«La difficoltà della sinistra a dare concretezza alla governance della
globalizzazione è evidente: negli anni scorsi c’è stato in materia un grande
dibattito, basti pensare allo stesso vertice di Firenze sulla " terza via",
ma non si può dire che questo dibattito abbia prodotto molti risultati
concreti. Vede, la sinistra riformista sconfisse definitivamente ogni
residuo di luddismo nel movimento operaio quando riuscì a dare vita a quello
straordinario compromesso che è passato alla storia come Stato sociale. Di
fronte a una globalizzazione che, lo dico in polemica con i fondamentalisti
di Seattle, riduce la povertà assoluta, ma fa crescere quella relativa,
perché aumenta le distanze tra i Paesi ricchi e i Paesi poveri, siamo ben
lontani dal definire i contorni di un nuovo compromesso sociale, perché di
questo, in fondo, si tratta, su scala planetaria. Il riformismo ha di fronte
a sé un cammino impervio».
Veramente i Ds si sono divisi su qualcosa di molto più trito e rétro,
sull’opportunità o meno, cioè, di «stare nel movimento»...
«Non c’è dubbio che il nostro documento in vista di Genova sia stato un po’
ambiguo. Comunque, per noi il problema non è se stare o no nel movimento, ma
come dialogare. E non parlo solo di noi Ds. Lo dico come esponente del
Partito socialista europeo: questi sono temi su cui deve esserci una
riflessione e un’iniziativa del Pse e dell’Internazionale socialista».
Immagino che da riflettere abbia anche il suo partito, che si avvia al più
difficile dei congressi.
«Di fronte ai rischi di lacerazione, io penso che vada difesa l’unità del
partito, di questo partito, anche nella prospettiva della costruzione di una
più ampia forza socialista di stampo europeo...».
Ma nell’Internazionale e nel Pse ci state da un pezzo...
«Sì, ma in tutti questi anni il riformismo non è riuscito a mettere radici
sufficientemente salde nello stesso modo di pensare del nostro partito. Il
congresso deve essere una tappa in questa direzione. Io credo che una forza
riformista debba avere al proprio interno una consistente sinistra. Ma se
pensassimo che dalle nostre difficoltà attuali si possa uscire con quella
che un tempo si sarebbe definita una "svolta a sinistra", faremmo il più
straordinario dei regali a Silvio Berlusconi, che già mi pare forte del suo
nel Paese. Di più: togliere di mezzo l’esperienza e la vocazione di governo
della sinistra significherebbe condannarla alla minorità, e chiudere la
porta per un lunghissimo periodo alla prospettiva stessa dell’alternanza».
È inutile che glielo ricordi io: ma è stata anche la concreta esperienza di
governo a stremare la sinistra italiana.
«Lo vedo, sono in molti a farmi, come dire?, delle severissime autocritiche.
Ma io dico che il Paese lo abbiamo governato in modo più che dignitoso: non
dobbiamo buttare via il bambino dell’esperienza di governo e tenerci l’acqua
sporca della litigiosità. E non mi convince affatto nemmeno l’idea che a noi
tocchi solo presidiare i nostri confini, perché a conquistare nuovi ceti
provvedono Rutelli e la Margherita. È una strana idea della divisione del
lavoro, che porterebbe solo a una sinistra isolata e minoritaria».
Mi sembra di sentir riecheggiare le sue vecchie polemiche antiuliviste...
«Non voglio riaprirle quelle polemiche, in cui porto (ma non sono davvero il
solo) una parte di responsabilità: può darsi che io abbia esagerato a
difendere il ruolo dei partiti nei confronti dell’Ulivo, ma ha esagerato
anche chi ha concepito l’Ulivo come una specie di finanziaria di controllo
della coalizione. Comunque, insisto, io lavoro per l’unità del partito e
sono favorevole, in vista di un congresso in cui ci saranno diverse mozioni
politiche, a un documento unitario sui princìpi e sui valori».
Lei dice: una sinistra moderna, una sinistra di governo anche quando sta
all’opposizione. E una sinistra moderna, di governo, come interpreta
operazioni come Telecom?
«Non sono certo nazionalista, ma è meglio che un grande gruppo italiano
resti sotto controllo italiano. E Tronchetti Provera e Benetton sono persone
serie e stimabili, che nutrono una forte vocazione imprenditoriale e
garantiscono una gestione qualificata e indipendente. Direi quindi che è
andata bene, nel senso che poteva andare peggio. Ma Amato ha ragione quando
parla del nostro capitalismo come di un capitalismo nano, la cui
riorganizzazione ruota attorno ai protagonisti di sempre, perché nuovi
protagonisti non riescono a emergere, così come non riesce a nascere un vero
mercato finanziario. E pensare che questa destra prometteva di spezzare il
fronte tradizionale dei poteri, di spalancare i salotti buoni...».
E dell’insuccesso di Colaninno, che cosa pensa? «Certo non ne sono lieto.
Continuo a considerare quell’operazione una novità importante per affermare
una logica di mercato inedita per il nostro Paese».
Ma l’avete favorita o no?
«No. Abbiamo resistito alle pressioni per bloccarla. E io resto convinto che
il capitalismo italiano abbia bisogno di soggetti nuovi, tra i quali non
mancherà lo stesso Colaninno. Il bipolarismo esige il rispetto di tre
condizioni: un pluralismo reale nell’economia, un governo che non pretenda
di farsi regime, un’opposizione capace di mantenere il profilo di una forza
di governo».
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