I Ds di Libertà eguale
Salvare i DS, consolidare l'Ulivo e costruire un nuovo, unitario partito del
riformismo socialista.
Preambolo e sintesi.
Il prossimo congresso dei DS, e comunque le scelte che i DS faranno entro il
prossimo anno, sono decisivi; nel senso che è decisivo il momento che vivono
i DS e - con loro - la sinistra e l'Ulivo. Molte cose sono in gioco:
l'efficacia dell'opposizione in questa legislatura e la possibilità di
vincere nella prossima sfida per il governo; la convergenza e la visibilità
delle forze riformiste provenienti dalla tradizione socialista e la
consistenza del loro contributo all'unione di tutti i riformisti, alla casa
comune dei riformisti; la stabilità, la solidità e la coesione dell'Ulivo,
alleanza per il governo, soggetto politico interprete della "vocazione
maggioritaria" indispensabile per competere in un sistema bipolare e
necessaria alla stessa sinistra per essere "sinistra di governo".
Il prossimo congresso, le scelte dei DS avranno conseguenze su tutti questi
piani, non perché i DS stessi debbano essere guida dell'Ulivo o debbano
"assorbire" le altre forze del riformismo socialista. Ma nei DS si raccoglie
una parte molto consistente delle forze provenienti dal movimento operaio e
socialista ancora attive sulla scena politica italiana. Una loro crisi
radicale e definitiva avrebbe dunque effetti pessimi tanto per queste forze
quanto per l'Ulivo. Oggi questo pericolo non è inesistente. Bisogna
individuarlo, analizzarlo e dissolverlo. Noi condividiamo con tutti gli
iscritti ai DS e con tutti coloro che partecipano all'Ulivo questa
preoccupazione e sentiamo vivissimo questo impegno. Non condividiamo, e
consideriamo anzi un grave errore l'idea che per salvare i DS si debba far
blocco senza andare troppo per il sottile, si debbano mettere al bando
discussioni e confronti aperti di posizioni, non si debbano "disturbare" gli
iscritti ai quali si dovrebbe offrire soltanto immagine di compattezza e
certezza di comando. Noi pensiamo che, in tal modo, si otterrebbe soltanto
di aggravare la crisi fino al punto da renderla definitiva. La sorte dei DS
non dipende dalla capacità di cementare le loro forze attuali, dalla
perentorietà con la quale affermano la loro autosufficienza, ma dalla
capacità di aprirsi e di comprendere la importanza del rapporto con gli
altri riformisti, socialisti e non.
Noi pensiamo che le risorse da attivare, alle quali affidarsi, siano la
formulazione chiara delle possibili proposte, la loro discussione
approfondita e priva di chiusure, la partecipazione più ampia e consapevole
degli iscritti e la loro assunzione di responsabilità nell'indicare la
scelta che considerano più convincente ed efficace. Una delle ragioni per
cui i DS si trovano oggi in una situazione di seria difficoltà è esattamente
l'asfissia della vita democratica e la passività alla quale sono stati
indotti gli aderenti in nome dell'onnipotenza del vertice. Le odierne grida
e proteste di alcuni dirigenti locali in nome del loro "amore" per l'unità
del partito non fanno altro che sottolineare la loro responsabilità per il
silenzio e l'acquiescenza di ieri.
Perché siamo arrivati al punto che appare in forse la sorte stessa dei DS?
Noi pensiamo che la causa non unica ma di gran lunga più importante sia il
ritardo, fino al blocco, del processo di rinnovamento, l'illusione -
promossa dal vertice stesso del partito - che il rinnovamento si potesse
considerare concluso e che il mantenerlo aperto risultasse addirittura
dannoso. Non ci riferiamo in questo caso alla capacità di cogliere le novità
nella realtà sociale, di collegarsi ad esse, di innovare in conseguenza le
politiche di riforma. Anche questo è un problema. Ma a noi sembra ben più
decisivo il mancato compimento dell'innovazione nella cultura,
nell'organizzazione, nel modo di far vivere e dirigere il partito. E' una
condizione preliminare: molte volte abbiamo verificato che novità
programmatiche, pur elaborate e proposte, sono cadute o sono state
accantonate perché in contrasto con modi consuetudinari di pensare e di
comportarsi, presenti nel partito e ancora non superati.
Nonostante tutto, malgrado i ripetuti richiami alla "socialdemocrazia" e
anche ad auspicate "rivoluzioni liberali" nei DS la sinistra viene ancora
identificata con il modello (certamente poderoso e comprensibilmente
presente) rappresentato per mezzo secolo dal PCI: con il suo fondamento
classista e la sua ispirazione marxista, con la sua cultura politica tanto
improntata dalla "responsabilità" democratica e nazionale quanto orgogliosa
della propria diversità, tipica di una forza che sacrificava la possibilità
di promuovere un'alternativa di governo al vagheggiamento di un'alternativa
di sistema mai del tutto tramontato, con i suoi moduli organizzativi e di
direzione, questi sì di stampo comunista, basati su una concezione
"organica" del partito e sul centralismo democratico; regola, prima ancora
che della "disciplina", della direzione e del governo del partito, affidati
per definizione ad un "centro" addetto alla sintesi e all'unificazione delle
tendenze di "destra" e di "sinistra", necessariamente "parziali", quando non
"devianti". A dieci anni di distanza si deve dichiarare che l'occasione di
rinnovamento offerta con la "svolta della Bolognina" non è stata interamente
colta, non ha prodotto tutti gli effetti necessari, vuoi per le debolezze e
le parzialità in essa presenti, vuoi per la fretta restauratrice degli anni
successivi.
Il ritardo nella necessaria innovazione della sinistra è stato accentuato da
quanto è avvenuto, o non è avvenuto, fuori e intorno ai DS. Gli altri
raggruppamenti della sinistra hanno anch'essi vissuto un periodo di
travaglio e difficoltà, e non hanno superato i limiti imposti comunque dalla
loro piccola dimensione. Il collasso del PSI e la diaspora socialista che ne
è conseguita non sono stati contraddetti da significativi processi di
riaggregazione, nonostante l'impegno generoso e la parabola apprezzabile
dello SDI. Il retroterra delle grandi organizzazioni sindacali, pur
investito dai processi politici scaturiti dalla fine del vecchio sistema dei
partiti, ha mirato soprattutto a tenersene al riparo, come fosse possibile
un mutamento generale degli strumenti, degli istituti e delle forme della
politica, del rapporto fra cittadini e politica senza che i sindacati stessi
fossero chiamati alla prova di un loro cambiamento. Cosicché non ha fatto
passi avanti l'unità sindacale e le divisioni fra le organizzazioni si sono
anzi appesantite e irrigidite in una logica di "apparati". Il sindacato nel
suo insieme appare bloccato entro le logiche gloriose, ma se non superate,
certamente parziali dell'industrialismo; capace di collegarsi solo con i
settori del mondo del lavoro stabilizzati e delle imprese medio-grandi,
tradizionalmente rappresentati. Nelle zone del mercato del lavoro più
dinamiche e precarie, frequentate dai giovani, ne deriva un'immagine
conservatrice del sindacato, che conferma e sottolinea un'analoga immagine
che investe l'intera sinistra.
L'incompiuto rinnovamento segna il modo di pensare, la cultura ancora
prevalente nei DS; anche nell'analisi e nel rapporto con la società, con le
sue trasformazioni, con le sue novità, gli strumenti disponibili continuano
ad essere quelli di sempre. Ci si affida ad un'ottica lavoristica, alla
cosiddetta "centralità" o "funzione sociale" del lavoro, come se lì ci fosse
l'alfa e l'omega dell'ancoraggio sociale, il punto di appoggio della leva
che consente la "critica generale" della società e delle diverse "condizioni
sociali" che in essa si ritrovano. Insomma, ancora l'eco, per quanto negata,
di un'idea "di classe" della sinistra. Resta ferma l'idea che sia ancora
strutturalmente decisivo per la caratterizzazione della società, per la
determinazione della condizione sociale il momento della produzione di beni.
Noi pensiamo che la condizione sociale oggi non viene afferrata se ci si
limita ai problemi della persona lavoratrice. Le persone sentono che la loro
vita, la qualità che assume dipendono altrettanto da altre sfere che hanno
acquistato e acquistano peso crescente: le gerarchie e le scelte del
consumo; l'organizzazione e le finalità del tempo libero, cioè di non
lavoro; l'accesso alle informazioni e alle conoscenze, decisivo non solo per
le attività lavorative, ma in tutti gli aspetti del vivere, in tutte le
relazioni fra le persone, per padroneggiarli, per non doverli subire in modo
subalterno. Le persone cercano una sinistra capace di misurarsi su tutto
l'arco di questi problemi, di fornire obiettivi e soluzioni su tutti gli
aspetti della loro condizione sociale, di predisporre le occasioni e gli
strumenti per una azione politica che afferri tutto questo orizzonte. A
questo fine gli strumenti tradizionali di una "sinistra di classe" non sono
sufficienti; non consentono di afferrare e mettere a fuoco i problemi, non
consentono di elaborare soluzioni efficaci. Su questo punto pensiamo
esattamente l'opposto di quanto sostengono altri nei DS. Una sinistra che si
affidi alla sua ottica tradizionale, "classista" e "lavorista", non accentua
oggi la sua capacità critica nei confronti della società, né rende più
robusto il suo riformismo; produce invece una critica e un riformismo
deboli. La forza stessa del riformismo dipende dalla apertura ad altre
tradizioni, ad altre culture. Esse forniscono elementi indispensabili non
solo per il fondamento delle libertà ma anche per comprendere tanti problemi
delle persone, per intervenire su aspetti essenziali della loro vita, per
aiutarle a migliorarli. Per questo consideriamo essenziale l'assunzione dei
principi e degli strumenti del liberalismo ai fini della comprensione e
della critica della odierna condizione sociale. E consideriamo
importantissimo l'apporto delle culture personalistiche e comunitarie di
ispirazione religiosa; esse consentono di trarre dalle relazioni e dalle
comunità in cui ciascuno è concretamente immerso - a cominciare dalla
famiglia - risorse decisive per migliorare la vita delle persone e il
livello della civiltà sociale. Così è possibile pensare e attuare un
riformismo davvero incisivo ed efficace.
Anche noi vogliamo salvare, cioè dare saldezza, fiducia e prospettiva alle
forze che sono oggi nei DS, in particolare a quelle che, provenendo dal PCI,
attraverso la svolta di dieci anni fa, hanno voluto approdare alle sponda
della sinistra di governo e collocarsi nella dimensione del riformismo
socialdemocratico. Siamo convinti che, per farlo, è assolutamente necessario
che queste forze, con il loro prossimo congresso, decidano di coinvolgersi
pienamente in due processi politici distinti ma non separabili uno
dall'altro, perché uno è condizione dell'altro. I DS devono unirsi alle
altre forze del riformismo di derivazione socialista, compiendo un atto
esplicito che affermi - con una nuova discontinuità - la pari dignità delle
forze che non provengono dal PCI. Questo atto consiste, a nostro avviso, nel
proporre e sostenere la leadership di Giuliano Amato per la più larga unione
che auspichiamo. Il processo volto a questa più larga unione deve essere
contemporaneo e contestuale a quello di consolidamento dell'Ulivo, di
strutturazione democratica e organizzativa, di definizione delle procedure e
delle istanze comuni dell'alleanza per il governo. L'Ulivo è il soggetto
politico portatore della "vocazione maggioritaria" della capacità di
competere per il governo; è la dimensione indispensabile che consente di
essere forze di governo a tutte quelle che ne fanno parte. Questa è la
strada che noi indichiamo per "salvare i DS", per dare a tutti noi che ne
facciamo parte convinzione e slancio, necessari non solo a noi, ma alla
forza dell'opposizione oggi, alle possibilità di vittoria dell'Ulivo in un
domani vicino. Vogliamo con tutte le nostre forze "salvare i DS" perché
vogliamo una sinistra nuova, incisiva e vincente al servizio dell'Italia che
amiamo. Pensiamo, e lo diciamo senza reticenza o doppiezza, che i DS si
salvano se non pretendono, se non si illudono di poterlo fare da soli, se
evitano il pericolo mortale dell'autosufficienza. I DS sono indispensabili
per la vitalità e la forza degli altri con i quali ci uniamo. Gli altri sono
indispensabili a noi per vivere la politica come grande impegno nazionale e
internazionale e non come testimonianza minoritaria e triste.
1. Consolidare e strutturare l'Ulivo, Federazione di partiti, associazioni,
movimenti, individui.
In Italia il soggetto portatore della "vocazione maggioritaria", il soggetto
che aspira a governare e si oppone al centrodestra, è l'Ulivo. E' l'Ulivo lo
strumento attraverso il quale i riformisti italiani possono costruire una
credibile proposta di governo del cambiamento, fondata su di un nuovo
equilibrio tra le esigenze della libertà e quelle della sicurezza,
contrapponendosi al populismo individualista del centrodestra.
Per questo l'Ulivo va coltivato e fatto crescere, combattendo apertamente
tutti quei particolarismi e quelle tentazioni egemoniche delle sue singole
componenti che lo hanno indebolito e ne hanno minato la credibilità.
Se l'Ulivo ha potuto raccogliere il consenso di un così ampio numero di
cittadini - molto al di là della somma dei consensi dei partiti che ne fanno
parte - ciò è dovuto al fatto che esso "continua ad essere percepito come
una sorta di 'organizzazione non governativa', non partitica, non
burocratica, cui si può partecipare anche senza essere iscritti a niente.
Questa idea dell'Ulivo deve contaminare e corrodere tutte le vecchie
forme-partito".
E' l'Ulivo che conferisce funzione di governo ai singoli partiti che ne
fanno parte: per questo, l'innovazione e la stessa aggregazione delle
singole componenti della coalizione (la sinistra di ispirazione socialista,
la Margherita) può essere perseguita con successo solo attraverso
un'iniziativa contemporanea e contestuale a quella di consolidamento e
strutturazione dell'Ulivo in una vera e propria Federazione di partiti,
movimenti, associazioni, singoli cittadini.
Ciò vale per il progetto di costruzione di un nuovo, unitario partito del
riformismo socialista, che sarà destinato al fallimento se si commetterà
l'errore - almeno in parte compiuto con la Cosa 2 di Firenze - di concepirlo
e perseguirlo in antitesi o anche soltanto in assoluta autonomia rispetto al
processo di consolidamento e strutturazione dell'Ulivo. Così come vale per
il tentativo in atto di trasformare la Margherita in un partito unitario:
l'ambizione di trasformare una parte (la Margherita) nel tutto (il progetto
dell'Ulivo) condurrebbe al fallimento l'una e l'altro e va dunque combattuta
apertamente, non in nome di un'aspirazione egemonica uguale e contraria, ma
in nome dell'interesse di quanti si affidano all'Ulivo come alternativa al
centro destra.
Dentro questa logica si iscrive il nostro rifiuto della divisione del lavoro
tra sinistra e centro - si legga oggi DS e Margherita - dentro l'Ulivo, sia
sul piano sociale, sia sul piano politico. Sulla rappresentanza sociale
basterà ribadire che il campo di forze sociali di cui nei principali paesi
europei sono espressione e interpreti le grandi forze del socialismo
democratico, è lo stesso che in Italia si riconosce nell'Ulivo. Quanto alla
divisione del lavoro sul piano delle alleanze politiche - perché è chiaro
che l'Ulivo deve essere capace di alleanze con altre forze politiche, come
accade per i grandi partiti del PSE a vocazione maggioritaria - è evidente
in quale aberrazione essa dovrebbe tradursi: la sinistra fa il suo mestiere
e "porta" alla coalizione l'allenza con R.C.; la Margherita fa altrettanto e
si occupa di Lista Di Pietro e Democrazia Europea. Risultato: o nessuna
alleanza per l'Ulivo, o lo squilibrio del suo profilo politico-programmatico
nell'una o nell'altra direzione. Se l'Ulivo è solido e strutturato come
soggetto portatore della vocazione maggioritaria, allora può contrarre le
alleanze politiche di cui ha bisogno per prevalere sul centrodestra. Se
l'Ulivo è una debole coalizione di partiti, messa su qualche mese prima
delle elezioni, può persino accadere quello che sta accadendo dopo il 13
maggio: che ciascuno chieda conto all'altro di alleanze e accordi non fatti,
di cui nessuno sa darsi ragione.
In Europa, sono i grandi partiti socialisti (membri del PSE) a costituire
l'asse dell'alternativa di governo al centrodestra: essi possono allearsi
con altre formazioni politiche, ma forniscono e propongono agli elettori di
centrosinistra la leadership per il governo e la sostanza della piattaforma
programmatica. In Italia, solo la costruzione del soggetto politico Ulivo,
può dar luogo ad una forza che svolga la stessa funzione politica che in
Europa svolgono i grandi partiti del PSE. L'Ulivo va dunque consolidato e
strutturato in una vera e propria Federazione dei diversi riformismi
italiani, dotata di regole certe per la selezione democratica della
leadership, delle candidature uninominali, e per la adozione dei programmi
di governo.
Si propongono precise ed immediate scelte politiche:
a) La costruzione di una Federazione dei gruppi parlamentari dell'Ulivo,
guidata alla Camera da F. Rutelli e al Senato da G. Amato; la riunione
congiunta delle due Presidenze dei gruppi dovrebbe designare i responsabili
dei 12 Dipartimenti corrispondenti ai 12 Ministeri della riforma Bassanini
(Governo ombra); la Federazione dei gruppi dell'Ulivo deve realizzarsi in
tutte le Regioni e le Autonomie locali. E' la Federazione dei Gruppi la sede
per l'adozione di tutte le scelte più rilevanti nell'iniziativa di
opposizione al governo di centro destra. Per questo, i Presidenti della
Federazione dei Gruppi debbono essere delegati a svolgere le dichiarazioni
di voto più impegnative (voto di fiducia al governo, voto sulle leggi di
bilancio, su importanti e decisive scelte di politica europea ed
internazionale, ecc.).
b) In ogni Collegio elettorale della Camera deve sorgere un Comitato
dell'Ulivo, cui si possa aderire sia collettivamente - attraverso
l'iscrizione ad uno dei partiti dell'Ulivo, ad un'associazione o movimento -
sia individualmente. I Comitati di Collegio costituiscono - alla pari dei
partiti della coalizione - le strutture di base per il processo di
designazione e di delega dei componenti la Convenzione Nazionale dell'Ulivo,
sede democratica per l'elaborazione e l'approvazione del programma e per la
definizione delle strutture rappresentative.
c) Il Comitato Nazionale dell'Ulivo deve assumersi la responsabilità di
elaborare - entro un anno - un regolamento per la tenuta di consultazioni
elettorali primarie per la scelta del candidato Presidente del Consiglio,
dei candidati Presidente di Regione, di Provincia e Sindaco e per la scelta
dei candidati di collegio uninominale. La Federazione dei gruppi dell'Ulivo
deve presentare una proposta di legge sulle consultazioni elettorali
primarie ed insistere per la sua approvazione nella prima parte della
legislatura, anche legando la tenuta delle primarie al finanziamento della
campagna elettorale (volete i soldi per la campagna elettorale? Per averli,
o averne di più, fate scegliere i candidati con le Primarie ai vostri
elettori più attivi ed impegnati e perciò disposti ad iscriversi in un
apposito elenco). La proposta delle Primarie è stata in passato respinta -un
po' da tutti i partiti- sulla base della tesi dell'eccessivo squilibrio
elettorale-organizzativo tra i DS e gli altri partiti dell'Ulivo: se si
trattava di una obiezione "sincera", essa non può che considerarsi superata
dall'esito del voto per la quota proporzionale della Camera dei Deputati.
Dunque, i DS debbono ora premere perché tutto l'Ulivo prenda un preciso
impegno di fronte ai suoi elettori: sì a Primarie regolate per legge; mai
più candidati - a partire dal candidato premier - scelti come nelle ultime
elezioni politiche. Tenere le elezioni primarie per la scelta tra Amato e
Rutelli - come ha proposto, inascoltata, Libertàeguale nel settembre scorso
- era l'unico modo per far rinascere subito quello "spirito del '96" che è
tornato a manifestarsi solo negli ultimi due mesi di campagna elettorale. E,
soprattutto, per affrontare e risolvere il problema della leadership
dell'Ulivo non dal versante della appartenenza politica del candidato, ma
dal versante dell'innovazione politico-istituzionale, facendo leva sulla
risorsa della democrazia. Se il problema ha questo spessore, l'ottima prova
del candidato Rutelli non ne modifica i termini essenziali. Del resto, solo
partendo da questa innovazione politico-istituzionale si può offrire
espressione democratica ad una tendenza - quella alla personalizzazione
della politica - che ha già prodotto tanti effetti non solo nella vita dei
partiti, ma nella costituzione materiale del Paese, ormai divenuto un Paese
in cui la forma di governo parlamentare convive con la designazione diretta
del premier da parte degli elettori.
E' ovvio che si tratta di scelte che non possono essere assunte da una
singola componente dell'Ulivo. Ma i DS intendono finalmente determinarsi ad
un'incalzante iniziativa per proporre la loro adozione da parte di tutto
l'Ulivo? Non bastano generiche dichiarazioni di "disponibilità", magari
seguite dalla tanto pronta quanto sospetta presa d'atto della
"indisponibilità" di altri.
Non sarà neppure sufficiente che il Congresso Nazionale dei DS - a metà
novembre - si pronunci favorevolmente su queste proposte di strutturazione
dell'Ulivo, se prima di allora, i DS stessi non avranno prodotto fatti
politici volti ad innescare questo processo di strutturazione dell'Ulivo, in
una prospettiva federativa.
Ne va della forza e della credibilità dell'opposizione al governo
Berlusconi. E' in gioco la possibilità stessa di preparare l'alternativa.
Non può essere in alcun modo sottovalutato il fatto che, in questa prima
fase della nuova legislatura, il centrosinistra non abbia saputo parlare con
una sola voce - e si sia anzi clamorosamente spaccato - su questioni
cruciali come il G8 di Genova e il relativo mandato parlamentare al Governo,
sul recepimento della direttiva comunitaria sui contratti di lavoro a tempo
determinato, sul giudizio circa la rottura dell'unità d'azione dei sindacati
dei lavoratori dipendenti.
Nessuno pensa che le misure politico-organizzative per la strutturazione
dell'Ulivo possano di per sé consentire il superamento delle difficoltà
dell'Ulivo a maturare posizioni univoche su ogni tema dell'agenda politica,
ma è certo che l'attuale, completa assenza di sedi comuni di analisi,
elaborazione e decisione minaccia l'esistenza stessa dell'Ulivo.
E' dunque un'assenza cui va posto immediatamente rimedio.
1.1 Gli errori politici che ci hanno condotto alla sconfitta elettorale e
all'attuale crisi.
Solo pochi anni fa, giusto all'indomani della costituzione del governo
Prodi, il primato dei partiti e la concezione dell'Ulivo come semplice
coalizione di partiti erano convinzioni chiaramente espresse dai segretari
dei due partiti maggiori, D'Alema e Marini. D'Alema, in particolare, impostò
una strategia che partiva da premesse esattamente antitetiche a quelle che
abbiamo ora esposto: essere il Pds-Ds, gli eredi del comunismo italiano, e
non l'Ulivo, il soggetto a vocazione maggioritaria, proprio come negli altri
grandi paesi europei lo erano i partiti del movimento operaio e socialista.
Non si trattava forse del partito nettamente più grande della coalizione?
Non aveva forse, già nel passato e soprattutto dopo la svolta e l'inclusione
nella famiglia dell'Internazionale Socialista, dato prove sufficienti di
democrazia e di riformismo? Non era convenzione comunemente accettata in
Europa che fossero i segretari del partito maggiore della coalizione
vincitrice a svolgere il ruolo di primo ministro? Perché gli ex-comunisti
dovevano ancora, e per quanto tempo, essere considerati i "figli di un Dio
minore"? Di qui, alla caduta del governo Prodi - provocata
dall'irresponsabile scelta di rottura di RC - la scelta di portare il leader
dei DS alla guida del governo, senza quel passaggio elettorale che lo stesso
D'Alema aveva tante volte dichiarato indispensabile. Di qui la forzatura
politica sulle elezioni regionali del 2000, per superare quel deficit di
legittimazione popolare: se queste fossero state un successo per il centro
sinistra e i Ds, il Presidente del Consiglio sarebbe stato il candidato
premier alle politiche del 2001. Se, in particolare i DS avessero vinto, il
centro sinistra si sarebbe forse strutturato come una coalizione dominata da
un partito e dal suo leader.
Ma i DS e il centrosinistra hanno perso sia le Regionali , sia le Politiche.
Se ne deve dedurre che in Italia la sinistra - cioè un uomo o una donna di
sinistra - non può e non potrà mai guidare un governo di alternativa ai
conservatori ? No. Semplicemente, allora il Pds-Ds mostrò di ritenere
concluso - o comunque di sottovalutare - un cammino (quello della
costruzione di un partito del socialismo europeo in Italia non connotato
come ex comunista e quello del consolidamento di un equilibrato e stabile
soggetto di centrosinistra) che lo stesso Pds aveva in realtà rallentato e
contraddetto.
Rallentato, con la mancata innovazione di cultura politica e piattaforma
programmatica - una sorta di vera e propria rifondazione della
socialdemocrazia - che era in atto nei partiti socialisti europei proprio
quando il Pds aderì all'Internazionale Socialista.
Contraddetto, con le tesi di Gargonza sopra il rapporto tra partito e Ulivo.
D'Alema doveva essere il primo a sapere che -anche per il suo stile di
conduzione del partito, per la sua riluttanza a metterne in gioco le
certezze, per la continuità di un quadro dirigente che non aveva mai
spezzato, per l'orgoglio del passato che aveva cavalcato e continuava a
cavalcare per assicurarsi facilmente la leadership- il nostro non era un
partito che gli italiani potevano percepire come completamente "nuovo" e
esso stesso di "centrosinistra" (nel senso del new labour e della SPD). Un
partito che, da solo, incorporasse la "vocazione maggioritaria" di un
soggetto-guida dell'intera coalizione. E' un punto cruciale e vale la pena
di ribadirlo. E' un punto che spiega perché insistiamo tanto sulla
strutturazione dell'Ulivo e sul nuovo partito del riformismo socialista:
sono queste le due scelte che assegnano alla sinistra un ruolo non
subalterno, ma da protagonista, nella costruzione del futuro dell'Italia.
2. L'Ulivo, il Pse e il nuovo partito della sinistra.
L'Ulivo può affermare pienamente la propria funzione a condizione che tutte
le sue componenti conoscano una profonda innovazione di cultura politica, di
piattaforma programmatica e di struttura organizzativa. E' sbagliato
affermare la "totale diversità" dei riformismi socialista, cattolico,
azionista-liberaldemocratico, ambientalista e promuoverne la separazione
organizzativa, la giustapposizione e la concorrenzialità, anziché la
cooperazione; in ogni caso non è questa la realtà dei soggetti politici a
vocazione maggioritaria, a cominciare dai partiti socialisti europei.
Tutti i partiti socialisti sono già oggi luogo di incontro e di reciproco
scambio tra questi diversi riformismi. Deve diventarlo sempre di più anche
il PSE, se vuole corrispondere - come deve - al mutamento da tempo in atto
nel PPE, ormai trasformato anche formalmente, dopo il congresso di Berlino
della scorsa primavera, in casa comune del centrodestra europeo. Si deve
riprodurre - alla dimensione del partito europeo- quella innovazione di
cultura politica e di piattaforma programmatica realizzata nei singoli
partiti nazionali. La dimensione europea è destinata ad assumere peso
crescente nel futuro della politica italiana; anche in Europa la
competizione democratica per il governo assumerà carattere bipolare,
centrodestra (asse PPE) contro centrosinistra (asse PSE).
Va dunque esplicitamente proposto ed affrontato un duplice problema: da un
lato, aprire il PSE ad un confronto, ad una collaborazione e ad una vera e
propria integrazione con altre forze riformiste di ispirazione cristiana,
liberaldemocratica e ambientalista, a partire da quelle che non aderiscono
a, o fuoriescono da, un PPE trasformatosi in polo conservatore di
centrodestra; dall'altro, costruire un rapporto tra l'Ulivo italiano e il
PSE in trasformazione, così che l'Ulivo possa trovare una stabile e coerente
collocazione nel bipolarismo europeo e il PSE rafforzarsi come asse
dell'alternativa di centrosinistra ai conservatori europei.
Il riformismo italiano di ispirazione socialista può e deve svolgere, in
questo senso, un'importante funzione politica, per l'Europa e per l'Italia.
Per l'Europa, se e in quanto è protagonista del consolidamento politico e
della strutturazione dell'Ulivo, dove coopera e si integra col riformismo
ambientalista, cattolico e azionista-liberaldemocratico, così da portare nel
PSE i frutti di una esperienza politica fondata sulla collaborazione con
quei riformismi, "diversi" da quello socialista, cui il PSE deve e vuole
aprirsi.
Per l'Italia, poiché porta all'Ulivo la forza della tradizione e la
straordinaria capacità di innovazione della grande famiglia socialista, così
da superare ogni residuo di "anomalia italiana", inserendolo nel sistema
politico europeo e favorendo l'acquisizione - da parte dell'Ulivo stesso -
di quella capacità di rappresentanza della società italiana ed europea, che
altrimenti gli sarebbe preclusa.
Per realizzare questa ambiziosa operazione politica - nell'Ulivo e per
l'Ulivo - la sinistra italiana deve dar vita ad un unitario partito del
riformismo di ispirazione socialista, ben oltre i confini del
post-comunismo, dentro i quali - malgrado la svolta dell'89 e l'ampiezza del
cammino percorso nella giusta direzione - ancora si mantengono i DS.
Se la sinistra italiana resta nei confini della sua attuale configurazione
partitica (due partiti dell'I.S., entrambi percepiti come ex… ciò che furono
nel secolo scorso) essa non è in grado di portare all'Ulivo il contributo
che le è proprio e che solo può fare dell'Ulivo un soggetto capace di
vincere nella competizione per il governo col centrodestra. E non è in grado
neppure di realizzare quell'innovazione di cultura politica, piattaforma
programmatica e leadership che ha caratterizzato negli ultimi 10 anni tutti
i grandi partiti socialdemocratici d'Europa, rendendoli capaci di vincere
(anche per la seconda volta, come nel caso del new labour di Blair) e di
governare.
Nessun progetto che abbia questa ambizione può essere perseguito senza far
leva sulle straordinarie risorse politiche, culturali e umane - di
militanza, di capacità di rappresentanza e di governo - oggi raccolte nei
DS. Allo stesso modo, una pretesa di autosufficienza dei DS nel
perseguimento di questo progetto lo condanna all'insuccesso: ecco perché è
indispensabile che il Congresso dei DS concepisca se stesso, le sue
conclusioni - sia sul terreno del programma fondamentale, sia sul terreno
delle scelte politico-programmatiche per l'opposizione al governo del
centrodestra, sia sul terreno della leadership - come un atto, per quanto
decisivo e condizionante, del più ampio processo di costruzione di un
unitario partito del riformismo socialista, nell'Ulivo e per l'Ulivo.
Non chiediamo conclusioni "provvisorie". Proponiamo apertamente agli
iscritti ai DS di assumere la più definitiva delle decisioni: scegliere col
Congresso di essere parte della Costituente di un partito effettivamente
nuovo - non più ex qualcosa - secondo la proposta avanzata, dopo la
sconfitta del 13 Maggio, da Giuliano Amato.
Il processo costituente di questo nuovo partito - se vuole risultare
credibile agli occhi di milioni di elettori che vivono drammaticamente la
crisi della sinistra italiana e il suo apparente avvitarsi in divisioni e
recriminazioni tutte dominate dal passato - deve avviarsi subito dopo il
Congresso dei DS e concludersi entro l'estate del 2002: la chiarezza e la
tempestività delle decisioni sono condizioni indispensabili per il successo.
In questo senso, noi ribadiamo l'esigenza che il Congresso dei DS sia
"ponte" verso il futuro, dell'Ulivo e del partito unitario del riformismo di
ispirazione socialista.
Ciò vale anche per la leadership del partito dei DS: la grande
legittimazione che deriva al segretario della elezione diretta da parte
degli iscritti garantisce - anche a questo proposito - contro ogni forma di
provvisorietà e precarietà, ma proprio per questo reclama lo scioglimento -
di fronte agli iscritti, in piena trasparenza - di due nodi cruciali:
a) il superamento di ogni ambiguità in tema di direzione "duale" del
partito: gli iscritti votano ed eleggono, al Congresso, un
segretario-leader, non due;
b) la leadership effettiva del partito unitario del riformismo socialista
che dovrà nascere dalla Costituente - di cui il Congresso DS è passaggio
essenziale - dovrà essere quella della personalità che si è assunta l'onere
di farsi "centro motore" di questo processo costituente: Giuliano Amato.
3. La nuova sinistra e i suoi obiettivi fondamentali.
Tre sono gli obiettivi essenziali ai quali la sinistra nuova deve mirare.
Il primo è l'inclusione. La sinistra non accetta l'esclusione, in tutte le
sue forme: l'esclusione che nasce dalla estrema povertà o dalla assenza di
ogni tutela della salute nelle zone più arretrate e dimenticate del mondo,
come quella che nasce dalla solitudine nelle metropoli più ricche del mondo.
La sinistra non si limita ad assistere o ad aiutare gli esclusi; cerca le
cause e i meccanismi della esclusione e agisce per ridurli, per rimuoverli.
La società che la sinistra vuole è una società che esclude l'esclusione, una
società che promuove, organizza e realizza l'inclusione.
Il secondo è la conoscenza. La sinistra combatte l'ignoranza,
l'impossibilità di accedere a dati e informazioni, l'incapacità di
utilizzarli, l'indisponibilità o la perdita degli strumenti che consentono
alle persone di accrescere ed aggiornare continuamente le loro conoscenze.
La sinistra considera l'accesso e l'accrescimento della conoscenza da parte
di tutti gli uomini e le donne del mondo la base sulla quale ciascuno può
edificare il proprio progetto di vita e la condizione che consente loro di
padroneggiarlo, di indirizzarlo consapevolmente. La sinistra di oggi vede
che si stanno creando le condizioni e insieme le domande per cui la
diffusione della conoscenza, la generalizzazione dell'accesso alla
conoscenza può avvicinare a uno dei più grandi ideali dell'umanità:
l'unificazione della specie nella consapevolezza della sorte comune.
Il terzo è la decisione. L'inclusione senza la conoscenza condannerebbe una
parte grande della umanità a lavori poveri, a ruoli sottomessi. L'inclusione
e la conoscenza senza la possibilità di prendere parte alle decisioni
condannerebbe una parte ancora più grande della umanità alla soggezione e
alla sudditanza. A soffrirne, oltre che gli individui in condizioni di
svantaggio, sarebbe l'insieme del consorzio umano che vedrebbe disperse e
sperperate moltissime delle potenziali risorse disponibili. Il problema
della partecipazione alla decisione sta diventando uno dei più grandi e
laceranti del nostro tempo. La velocità stessa dei processi di decisione,
l'ampiezza degli ambiti territoriali e sociali sui quali si riversano gli
effetti delle decisioni, vengono utilizzate per creare poteri sempre più
grandi e per sottrarli ad ogni controllo, ad ogni verifica della decisione
democratica. Le sedi, le istituzioni, gli ambiti sui quali la democrazia ha
edificato e consolidato gli strumenti del proprio intervento si incontrano
sempre meno con quelli nei quali i poteri effettivi di oggi si allocano e
vengono esercitati. Si alimenta così la sensazione di una inutilità della
democrazia che accresce l'assenteismo e accentua la passività e
l'esclusione. Si ripropone alla sinistra in termini inediti e, se possibile,
ancora più impegnativi che in epoche passate, la questione della democrazia.
E' necessaria una nuova grande stagione di immaginazione, sperimentazione,
costruzione di una democrazia capace di incontrare i poteri ovunque essi si
trovano e capace di articolarsi in modo da confrontarsi con essi, da
accompagnarli in ogni loro azione e manifestazione. E' un compito arduo ed
esaltante, al quale la sinistra deve cercare di associare la generalità
delle persone; è la costruzione difficile e inesauribile della libertà
futura, perché dal suo successo dipende se il futuro sarà segnato da più o
meno libertà, da una libertà povera o ricca, da una libertà per pochi o per
molti. Anzi, per tutti.
4. Il socialismo liberale.
Il socialismo del XXI° secolo è socialismo liberale, è la fusione in un
nuovo amalgama dei grandi orientamenti culturali che hanno dominato la
sinistra nei due secoli successivi alla Rivoluzione francese: l'orientamento
liberale del XIX° e quello socialista del XX°. Due orientamenti che si sono
spesso presentati come avversari, per gli strumenti utilizzati al fine di
analizzare l'economia e la società; per la distinzione "amico/nemico" da
essi proposta; per gli obiettivi suggeriti al movimento di emancipazione. In
un'ottica secolare oggi ci appaiono come due fasi necessarie del cammino
inarrestabile verso l'eguaglianza. Ma il contrasto di allora, l'estraneità e
l'incomprensione successive, il confronto che si è aperto dopo l'89, rendono
ancora il rapporto tra socialismo e liberalismo un rapporto difficile. Non
da ultimo perché il liberalismo è anche, in versione iper-individualistica,
una delle fonti ideologiche della destra: nulla di più facile, per chi non
vuole affrontare il problema di un nuovo bilanciamento tra questi due
essenziali ingredienti della sinistra, che definire il liberalismo in
opposizione di principio rispetto al socialismo.
Nulla di più facile, nulla di più sbagliato. La corrente di sinistra del
liberalismo è altrettanto interessata che il socialismo democratico nel
definire e promuovere quel quadro di regole, di istituzioni, di interventi
pubblici, il quale, senza interferire in modo intollerabile con la libertà
di alcuno, offra la possibilità al maggior numero di persone di esercitare
una effettiva scelta di piani di vita. Libertà per molti, invece che libertà
per pochi. Libertà eguale, insomma. Molto si gioca su quella qualificazione
apparentemente innocua: "senza interferire in modo intollerabile con la
libertà di alcuno". Questo gioco, in termini generali, dobbiamo lasciarlo ai
grandi filosofi contemporanei. In termini particolari, si tratta esattamente
delle misure di politica economica e sociale in cui il governo è impegnato
ogni giorno: quanto, chi e come tassare; se erogare beni, se erogarli
direttamente e a chi; quali vincoli porre nelle scelte attinenti al lavoro e
all'impresa; se erogare un reddito di cittadinanza o insistere maggiormente
su politiche fondate sul sostegno al lavoro; ed altre decisioni concrete cui
faremo riferimento in seguito. Qui ed ora va solo asserito che è giunto il
momento in cui un partito profondamente radicato nella cultura del movimento
socialista faccia i conti non soltanto con la sua variante comunista -siamo
convinti che, all'ingrosso, li ha fatti- ma anche con quell'antipatia
spontanea verso il pensiero liberale che deriva da decenni di conflitti e
incomprensioni.
4.1 Sinistra tradizionale e sinistra moderna.
Sulle idee ci si conta, perché le idee servono per far politica, per
affermare nel concreto la visione di vita buona che condividiamo e che ci
rende partito. E' quella visione che caratterizza il preambolo dello Statuto
dei DS, in cui ci riconosciamo. Questo ci accomuna -non abbiamo alcuna
obiezione sulle finalità ultime che tutte le posizioni presenti nel partito
propongono. Ma le idee (il quadro teorico di riferimento, le valutazioni
della situazione economico-sociale, i giudizi di opportunità politica) ci
separano. Alcuni di noi -in ideologia- ancora condividono la visione
classista che albergava nella vecchia socialdemocrazia e nei partiti
comunisti; al di là degli orientamenti ideologici, molti di più - in
pratica- sono aggrappati ai grandi soggetti sociali del passato, alle
organizzazioni che li rappresentano e alle loro rivendicazioni, alle
istituzioni concrete che queste hanno contribuito ad affermare. Prevale
insomma un atteggiamento conservatore dal punto di vista ideologico, e
difensivo da quello delle politiche concrete. Di più, è forte il rischio che
la scarsa volontà di affrontare il nuovo, la debole attrezzatura per farlo,
le drammatiche difficoltà del partito, portino a delegare a soggetti di
massa, a rappresentanti di interessi, compiti politici di cui un partito non
dovrebbe mai spogliarsi: in un momento di crisi, questi soggetti sembrano
essere l'unica cosa solida rimasta in piedi di quello che fu il potente e
glorioso movimento operaio e socialista del nostro paese, il fortino in cui
bisogna asserragliarsi.
Questo atteggiamento conservatore e difensivo è profondamente sbagliato. E'
sbagliato perché, sul piano delle idee, esso rinuncia ad un evidente, anche
se difficile, percorso egemonico, ad un percorso che valga per tutti i
cittadini progressisti, per infilare un cul de sac particolaristico e
storicamente sconfitto. Come non vedere che, oggi, la grande cultura di
sinistra, la cultura egemonica a livello mondiale, è una cultura
liberal-socialista? Tutti fanno continui richiami a questa cultura, per poi
sostenere che la sinistra deve rifondarsi "a partire dal lavoro". Questa
"rifondazione", o rivela una modesta ambizione difensiva, oppure si richiama
alla grande visione egemonica che la sinistra condivise nel passato, quella
del socialismo e del comunismo marxisti. In questa visione il lavoro è
sicuramente centrale, e in un senso teoricamente assai forte. Teoricamente
forte, ma sbagliato e politicamente sterile. La "rifondazione" di cui
abbiamo bisogno è diversa, è quella che parte dall'individuo e dai suoi
piani di vita e che sforza il concetto di libertà il più possibile verso le
possibilità effettive dei molti invece di limitarlo al massimo arbitrio dei
pochi. Per questo, quando vediamo contrapporre la "nostra" centralità del
lavoro alla centralità dell'impresa "degli altri", sentiamo che c'è un
arbitrario impoverimento della realtà sociale in questa interpretazione del
moderno conflitto sociale, non solo perché ormai l'autoimprenditorialità è
un tratto dominante del "lavoro"; non solo perché in Italia famiglia e
impresa spesso coincidono (e se l'impresa è "degli altri", allora regaliamo
loro anche gli individui e le famiglie che vi si identificano), ma anche
perché - nel rivolgere alla politica e allo Stato le sue domande - il
lavoratore di oggi vede il conflitto, ma vede bene, anzi meglio, dalla sua
postazione nel processo produttivo, anche i molti punti di comune interesse
con l'impresa. E' partendo da questa analisi dei mutamenti sociali in atto
che noi ci sforziamo da tempo di mettere a fuoco i tratti essenziali del
programma politico di un moderno riformismo: coraggiosa riforma federale
dello Stato, liberalizzazione di tutti i mercati chiusi ed oligopolistici,
sollecitazione di una riforma degli Ordini professionali che impedisca agli
insiders di sbarrare l'ingresso agli outsiders, destatalizzazione e
sburocratizzazione, sicurezza personale, riduzione della pressione fiscale a
fini di sviluppo.
Ed è in questo contesto, non certo in uno marxista e classista, che è
possibile accogliere senza forzature le domande di libertà, di autonomia, di
differenziazione che una società sempre più ricca e complessa suscita. Nello
stesso mondo del lavoro, le sicurezze, le tutele, i "diritti" sono certo
crucialmente importanti. Ma non sono più uniformi. Gli esclusi, i deboli, i
precari devono essere difesi dalla sinistra. Da chi altrimenti? Ma già sul
modo di difenderli nascono problemi: politiche centrate sul lavoro o
assistenza, e in quali modi le une o l'altra? E poi non ci sono solo loro:
tra i deboli e i forti, tra chi può solo essere licenziato dal padrone e chi
ha la forza di licenziarlo frequentemente, si è formato un ventaglio
sfrangiato di posizioni lavorative e dunque di domande diverse rivolte al
mondo delle regole e delle istituzioni pubbliche.
E non tutte le domande significative - quelle che ciascuno o ciascuna
avverte come importanti per la stima di sé e la costruzione del proprio
destino - riguardano il mondo del lavoro. La sinistra classista ha sempre
avuto difficoltà nell'incorporare nel proprio universo ideologico le domande
delle donne, anche quelle che riguardavano il lavoro. Una sinistra liberale,
una sinistra che parte dall'individuo, queste difficoltà non le ha proprio:
il riconoscimento della differenza è iscritto nel suo codice genetico.
4.2 La condizione sociale.
Questo è tema cruciale, perché corrisponde ad una delle maggiori debolezze
della sinistra tradizionale: da cosa è fatta oggi la condizione sociale?
Partiamo da alcuni dati. Una recente indagine ha dimostrato che i bambini -
nei paesi altamente sviluppati - decidono una quota molto alta dei consumi
delle famiglie di appartenenza, a cominciare da quelli connessi all'impiego
del tempo libero (vacanze ecc.). E' un dato che sottolinea, oltre
all'importanza dei media e della pubblicità, anche l'importanza della
famiglia e dei rapporti all'interno della famiglia. Quanti sono i genitori
che hanno tempo, cultura e disposizione per instaurare con i figli un
rapporto all'altezza di questo problema? E' evidente la devastazione e
l'appiattimento sociale che si avrebbe con una popolazione infantile e
giovanile fortemente dipendente dai mezzi di comunicazione, alla quale manca
uno scambio intenso e continuo con la generazione adulta, a cominciare
evidentemente dai genitori. Ma la cultura delle relazioni familiari e - più
ampiamente - delle relazioni fra le persone è oggi del tutto assente
dall'orizzonte sia dei mezzi di informazione, sia della scuola, sia anche
della politica. E questo quando la diffusione, la qualità, la ricchezza e lo
spessore delle relazioni sono il terreno decisivo sul quale la politica
misura il proprio legame con la realtà e la propria capacità di incidervi.
Guardiamo al tempo libero, sempre meno libero e sempre più organizzato dalla
catena di montaggio di cui la televisione e la pubblicità sono passaggi
essenziali. E all'importanza che la cultura, la conoscenza, assume sempre di
più per padroneggiare non solo il lavoro, ma anche - forse soprattutto - il
tempo libero e le relazioni interpersonali, in particolare - come abbiamo
appena visto - quelle familiari. Le relazioni stesse sono importantissimo
veicolo di conoscenza, di cultura. Quindi a determinare la condizione
sociale concorre in maniera determinante la qualità e la quantità delle
relazioni. La solitudine, che cresce a causa del prolungamento della vita
umana, dell'assottigliarsi delle relazioni e delle responsabilità familiari,
dell'urbanesimo e dei più vari meccanismi di esclusione (quando una persona
non parla, per giorni, con nessuno, inevitabilmente regredisce a livelli di
umanità "elementare" e passiva), è uno dei parametri fondamentali per
definire la "condizione sociale" e deve diventare un bersaglio centrale
dell'azione di una sinistra moderna.
Tutti questi temi e spunti hanno molto a che fare con il riformismo, con le
culture delle quali il riformismo ha bisogno, con la concezione della
sinistra, con il rapporto fra "sinistra" e "centro", con l'Ulivo. E'
evidente che la visione economicistico-classista, tipica della tradizione
delle sinistre socialiste, non consente né di afferrare né di criticare i
termini odierni delle condizioni sociali, né di attivare e sostenere
efficaci azioni politiche. Sono dunque centrali -non per un "altro"
riformismo nell'ambito dell'Ulivo, ma per il riformismo della sinistra di
oggi- tanto l'attenzione all'individuo che viene dalla tradizione liberale,
quanto l'attenzione alle "persone", alle "comunità" della sociologia e
dell'antropologia di ispirazione cristiana e cattolica. Senza questi
"ingredienti" non solo non c'è "unità dei riformismi"; non c'è neppure
riformismo di sinistra aggiornato e incisivo.
Infine, il rifiuto dell'economicismo investe anche la concezione, lo
spessore e la organizzazione della politica. La politica non esiste per
"correggere" l'economia e il mercato. Fa anche questo, evidentemente; ma ciò
è una conseguenza della ragion d'essere della politica, non è la ragion
d'essere stessa. La ragion d'essere della politica è scoprire i bisogni
delle persone, ascoltarne le aspirazioni, cercarne e sperimentarne la
soddisfazione; aiutare le persone a confrontare e perseguire obiettivi ai
quali attribuiscono valore, a costruire fra loro relazioni che rendono
ciascuno più informato e consapevole e rendono più efficaci le loro azioni
comuni; infine a rendere tra loro coerenti bisogni, aspirazioni, obiettivi
individuali secondo un disegno d'insieme eticamente giustificato. E' a
questa ragion d'essere, basata sull'individuo e i suoi piani di vita, che
conduce spontaneamente il socialismo liberale.
4.3 Il partito riformista e il movimento antiglobalizzazione.
Quando si terranno i congressi di sezione, sarà ancora fortissima
l'impressione suscitata dai fatti di Genova, in occasione del G8. Sarà un
brutto ricordo l'immagine che il nostro partito ha dato di sé.
Su questa vicenda è ancora necessario riflettere, perché essa rivela non
solo una grave incomprensione di che cosa significa essere forza riformista
e di governo, ma anche un'incomprensione ancora più grave della logica dei
movimenti collettivi, con i quali la sinistra si confronta oggi. Circa la
prima incomprensione, è emersa un'incertezza e una contraddizione, tra la
sinistra che, quando è al governo, organizza il G8 e la stessa sinistra che,
quando è all'opposizione, va a manifestare contro di esso (contro, perché
questo è il significato che le manifestazioni avrebbero oggettivamente
assunto). Circa la seconda, ci si rifiuta di prendere atto sia della natura
estremamente differenziata del movimento "antiglobalizzazione", sia di un
sentire molto diffuso di estraneità verso "la politica" così come noi la
interpretiamo, un comune sentire del movimento che associa destra e sinistra
"politiche" in un unico giudizio negativo. E, nella sinistra, non fa
distinzioni tra moderata ed estrema.
Noi dobbiamo accettare - di più, dobbiamo rispettare - questa posizione di
estraneità, e meraviglia che chi è passato attraverso il '68 non la fiuti
nell'aria: tra l'indignazione morale che muove gran parte di questi ragazzi
e ragazze e le risposte "realistiche" che la politica può fornire i ponti
esistono, ma sono molto gracili. La sinistra deve rafforzarli. Il modo per
farlo non può però essere quello di abbandonare il nostro ruolo di politici
riformisti e realisti, per "stare nel movimento". È quello invece di
prendere sul serio le ragioni della loro indignazione e aggrapparsi ai pochi
obiettivi che alcune parti del movimento esprimono. A partire da questi
(norme per la regolazione della circolazione di capitali speculativi,
remissione del debito, aumento degli aiuti internazionali) senza cedere di
un centimetro rispetto alle obiezioni serie di realismo e di fattibilità che
contro alcuni di essi debbono essere mosse, è facile mostrare che destra e
sinistra fa differenza.
4.4 Nel nostro paese: l'urgenza di una scelta liberalsocialista.
Siamo in una fase difficile per la sinistra, perché le esigenze della
competizione internazionale (che sono poi quelle della crescita
dell'economia), le rapide trasformazioni della struttura occupazionale
dovute alla terziarizzazione, l'invecchiamento della popolazione e di
conseguenza la crescente pressioni sui sistemi sanitari e previdenziali,
creano ovunque difficoltà per quegli equilibri istituzionali (quanti
riconoscimenti ex post per il welfare di un tempo, da parte di coloro che
spesso l'avevano combattuto!) che si erano formati al culmine della crescita
fordista. Non è però una situazione senza speranza da un punto di vista
elettorale: la ricetta della destra, quando è coerentente liberista, è dura
e impopolare. E' la "società di mercato" di cui parla Jospin. Quando mischia
elementi di liberismo con ampie dosi di corporativismo e populismo - com'è
avvenuto in modo crasso in Italia, ma non si tratta soltanto di un fenomeno
italiano- crea aspettative che necessariamente resteranno insoddisfatte: una
sinistra rinnovata, un Ulivo stabile e coeso e un'opposizione coerente e
competente dovrebbero aprire gli occhi agli italiani su chi hanno mandato al
governo.
Circa l'opposizione, e dunque la proposta di governo alternativa che da essa
dovrebbe emergere, le linee-guida che proponiamo sono quelle del socialismo
liberale. Su questa base siamo anche critici verso l'attività del nostro
governo. A nostro avviso, la sinistra e l'Ulivo non hanno saputo perseguire
con coerenza politiche che, in una logica di inclusione e di forte
solidarietà sociale, fossero però in grado di ampliare la sfera delle
libertà che abbiamo descritto più sopra. Non si è trattato di un limite
dovuto ad un errore di giacobinismo, di riformismo dall'alto, "senza
popolo": il popolo che avrebbe accolto con favore iniziative in quella
direzione c'era, eccome. Si è trattato di qualcosa di più grave: è mancata
quella svolta nella cultura politica della sinistra che poteva nascere solo
da un'aperta battaglia politico-culturale, una battaglia che avesse per
oggetto l'innovazione ideologica e programmatica necessaria ad assumere un
ruolo di rappresentanza politica nei settori più dinamici e innovativi della
società. Esattamente quella svolta che, negli ultimi dieci anni, è stata
attuata da gran parte dei partiti socialisti europei -dal New Labour della
Terza via alla Spd del Nuovo centro- e che nel Pds-Ds è stata tante volte
evocata (conclusioni di D'Alema al congresso del '97, mozione di Veltroni
sul socialismo liberale a Torino), ma mai apertamente proposta e fatta
oggetto di una impegnativa decisione congressuale.
5. Responsabilità e poteri degli iscritti e dei dirigenti di partito.
Il deludente risultato elettorale dei DS - identico a quello ottenuto nel
1992, subito dopo la nascita del PDS - chiude un ciclo politico: la svolta
dell'89 ha sottratto le forze migliori del PCI al crollo del socialismo
reale e ha dato luogo alla formazione di un partito che è stato protagonista
della transizione ad una democrazia dell'alternanza. La gestione del partito
nel decennio non è tuttavia riuscita a far nascere in Italia un partito che
non fosse e non venisse percepito come partito ex comunista, ma avesse una
cultura politica, un programma e una leadership collettiva tali da
consentirgli di svolgere la stessa funzione politica che svolgono in Europa
i partiti del PSE. In particolare, non c'è stata rottura di continuità
rispetto al governo del partito da parte del "centro" dell'ex PCI, così che
il nuovo partito è risultato incapace di cogliere e riassumere in sé la
pluralità delle diverse tradizioni della sinistra. Per recuperare il terreno
perduto, non basta affermare oggi ciò che - proclamato e praticato quindici
anni fa - sarebbe forse stato sufficiente; cioè che il principale partito
della sinistra italiana è membro dell'Internazionale Socialista e
cofondatore del Partito Socialista Europeo. Che è un partito
socialdemocratico. Pesa la continuità di una cultura della "diversità" che
non accetta l'approdo del socialismo liberale. E' l'incontro tra socialismo
e liberalismo che consente ai grandi partiti del socialismo europeo di
ridefinire la propria funzione, i tratti essenziali del proprio programma:
il rapporto tra Stato e mercato, l'organizzazione dello stato sociale, le
relazioni con i sindacati. Più in generale: il rapporto tra politica,
singoli cittadini e società civile.
Molti condividono la tesi che la sinistra non può essere liberale. Se questa
è una convinzione diffusa, la sua conseguenza è inevitabile: che in questi
anni di governo la sinistra ha fatto una politica che non è la sua; che si è
acconciata a portarla avanti, se non per cedimento alle ragioni degli
avversari, per senso di responsabilità nazionale o per condizionamenti
internazionali.
Questa è una contraddizione grave, che il congresso dei DS deve affrontare
di petto, poiché è il motivo principale dell'attuale condizione del partito.
Un partito che da un lato vanta, in modo ripetitivo e poco convinto, cinque
anni di buon governo; dall'altro, nel profondo, vive la politica condotta in
questi anni come una politica non propria, come una serie di oboli pagati ad
altri, alla U.E., alla Nato, alla Confindustria, ai partiti alleati. Un
partito di sinistra non può vivere a lungo in questa condizione di
ambiguità, in cui i suoi leader l'hanno tenuto o perché loro stessi erano
confusi e incerti, o perché temevano le conseguenze della verità, dello
scontro aperto. Il nodo va dunque sciolto, anche dividendosi, come ci si è
divisi senza alcuna spaccatura irreparabile nella S.P.D. quando Schroeder e
Lafontaine si sono scontrati.
Ritiene la maggioranza che il partito abbia portato avanti una politica che
non è la sua, che non è di sinistra, e che debba al più presto tornare a
fare il suo mestiere? Oppure ritiene che la politica di questi anni sia
stata - con grandi ambiguità e contraddizioni - il tentativo di percorrere
una strada nuova, su cui semmai bisognava camminare con più decisione,
coerenza e soprattutto senza sensi di colpa? Anzi, che le si debba dare
quella dignità morale e quello spessore culturale che solo l'esplicita
assunzione di un quadro ideologico di socialismo liberale le può fornire?
Noi vogliamo che il partito, come tutte le sedi attraverso le quali si
esprime l'impegno politico nostro e di tutti quanti con noi sono uniti
nell'alleanza per il governo, esaltino la responsabilità e il potere degli
aderenti, di tutti coloro che hanno il diritto di prendere parte alla
definizione di una decisione data, si tratti di un punto di programma o
della scelta di una persona, per qualunque ruolo, dal più delimitato al più
impegnativo.
Pensiamo che i difetti oggi esistenti, anche nell'impianto statutario vadano
rimossi non concentrando i poteri in modo centralistico o burocratico, ma
disciplinando ed equilibrando meglio l'esercizio del potere diffuso e
"universale", senza il quale la democrazia si restringe e deperisce. Così,
ad esempio, non pensiamo che si debba tornare indietro rispetto alla scelta
del segretario da parte della generalità degli iscritti. Può tuttavia essere
utile a equilibrare il potere di quel segretario e a rendere trasparente la
formazione della maggioranza che ha il compito e la responsabilità di
guidare il partito per un determinato periodo, la presentazione e la
votazione in congresso della segreteria che affiancherà e coadiuverà il
segretario.
In quanto convintissimi assertori della piena laicità della politica, e ben
consapevoli non solo dei limiti che la politica ha, ma anche di quelli che è
bene ponga a sé stessa, pensiamo si debbano affrontare apertamente questioni
che, secondo criteri consuetudinari, si è propensi a non trattare in
pubblico e ad affidare a sedi "riservate". Pensiamo che la riforma della
politica, l'avvio di una idea nuova di politica, imponga sempre e comunque
la massima trasparenza. Siamo perciò convinti che anche le questioni più
"delicate" - a cominciare da quelle che riguardano il reperimento e la
disponibilità delle risorse finanziarie necessarie allo svolgimento delle
attività politiche - debbano essere affrontate dalla generalità degli
aderenti e che anche le scelte in questo campo debbano coinvolgere la loro
responsabilità. Una buona politica deve consentire a qualunque cittadino di
sapere da dove trae le risorse di cui ha bisogno. Una politica padrona di sé
deve essere padrona delle proprie risorse.
La piena laicizzazione della politica, cioè la sua emancipazione da
costrizioni ideologiche e da controlli di apparati pone anche il problema
dei comportamenti, dello stile dell'azione e della comunicazione da parte
degli aderenti e in particolare dei dirigenti, di tutti coloro che hanno
cariche e responsabilità pubbliche in nome della sinistra e dell'alleanza
alla quale la sinistra partecipa. In passato la "correttezza" che diveniva
talvolta "conformismo" era in un certo senso imposta, veniva all'individuo
dall'esterno: si trattava di prenderne atto e di applicarla. Oggi non è più
così; ed è un bene, è un segno di emancipazione. Ma proprio per questo, le
persone - tutte e in misura proporzionale al loro ruolo, alla loro
visibilità - sono chiamate a trovare in sé stesse la giusta misura degli
atti e delle parole, e non solo nell'esercizio delle funzioni politiche, ma
in ogni circostanza. La società nella quale viviamo, con l'attenzione
crescente alle persone, con la diffusione, se vogliamo l'invadenza dei mezzi
di informazione, rende rilevanti anche messaggi involontari e che
scaturiscono da ambiti che con la politica non hanno a che fare. Si è, nella
sostanza, giudicati per un modo di essere, di agire, di apparire
complessivo; e spesso il giudizio si trasferisce dalle persone - tanto più
quanto più sono autorevoli e rappresentative - alla parte politica nella
quale si sta. La sobrietà, la coerenza, la disponibilità all'ascolto, la
capacità di evitare manifestazioni di sufficienza e di arroganza sono beni
che - in genere - i cittadini apprezzano in chi ha funzioni politiche e si
attendono in particolare da chi si colloca a sinistra. Senza moralismi e
burocratismi dobbiamo sapere che la costruzione di questa immagine sociale
dipende dai comportamenti individuali di tutti e chiama dunque in causa la
responsabilità di ciascuno. Certo è che una sinistra che coltiva e trasmette
questa immagine è più gradita, è sentita più vicina.
ALLEGATO
Le politiche del socialismo liberale.
Da questo quadro di riferimento generale - teorico e ideale - della nostra
posizione politica facciamo derivare i contenuti di una vera e propria
svolta sul terreno della cultura politica e della piattaforma programmatica
del partito. Nei paragrafi che seguono, ne indichiamo alcuni, a nostro
avviso emblematici.
1. Lavoratori più forti nel mercato, non solo in azienda.
Chiunque viva del proprio lavoro, e lo svolga continuativamente e
prevalentemente per una determinata impresa, ha le stesse esigenze di tutela
della propria salute e integrità personale e della propria libertà sindacale
e politica, di una ragionevole garanzia di continuità del lavoro e del
reddito, nonché di una ragionevole sicurezza contro il rischio di indigenza
per malattia, invalidità, disoccupazione. Oggi questa protezione è di fatto
negata a milioni di lavoratori: precari, "parasubordinati", irregolari, i
quali, insieme ai lavoratori delle imprese di minime dimensioni, portano
sulle proprie spalle quasi tutto il peso della flessibilità necessaria per
la competitività del nostro sistema nei mercati internazionali. Per altro
verso, anche la protezione dei lavoratori subordinati regolari delle imprese
di dimensioni medio-grandi incomincia a mostrarsi per molti aspetti
inefficace ? in un sistema produttivo caratterizzato da ritmi sempre più
intensi di obsolescenza delle tecnologie applicate e degli stessi prodotti ?
perché esclusivamente centrata sulla posizione del lavoratore in azienda,
ignorando la posizione del lavoratore nel mercato del lavoro. Nessun posto
di lavoro, neppure nella grande impresa, può ormai più dirsi "sicuro"; e,
nel mercato, chi perde il posto è oggi di fatto completamente abbandonato a
se stesso.
La necessaria riforma del sistema di tutela del lavoro deve affrontare la
questione nella sua globalità, con l'obbiettivo prioritario di una
riunificazione del mondo del lavoro, dell'abbattimento di tutte le barriere
che oggi lo dividono in compartimenti stagni, creando una contrapposizione
oggettiva di interessi tra chi gode di qualche protezione e chi ne è
escluso. A tutti i collaboratori continuativi dell'impresa, quale che sia la
forma giuridica della collaborazione, occorre innanzitutto estendere tutti i
diritti di libertà, di sicurezza e dignità personale, di tutela piena contro
discriminazioni e rappresaglie, garantiti dal vecchio Statuto dei lavoratori
del 1970. Ma dello stesso Statuto e della vecchia legislazione del lavoro
devono essere riscritte le norme legate a un'organizzazione del lavoro ormai
superata: così, ad esempio, quella sulla mobilità in azienda, legata a un
concetto di professionalità statico, incompatibile con il ritmo attuale di
mutamento dell'organizzazione produttiva; quelle sul tempo di lavoro, ancora
strutturate in funzione del modello di produzione fordista, che vedono
l'Italia ormai da cinque anni inadempiente rispetto alla direttiva
comunitaria n. 104/1993 (entrata in vigore nel 1996); quella sulla
protezione dei diritti di riservatezza del lavoratore, risalente a un'epoca
in cui non esistevano ancora i computer, i test psicoattitudinali, le
tecniche di indagine motivazionale. E va completamente riscritta la
normativa relativa alla posizione del lavoratore nel mercato: al vecchio
sistema, ormai ridotto in macerie, dei diritti "burocratici", fondati sulle
graduatorie del collocamento statale, occorre sostituire un nuovo sistema
capace di garantire a tutti i lavoratori, subordinati o autonomi, i tre soli
diritti su cui può fondarsi oggi la loro libertà e capacità effettiva di
autodeterminazione nel mercato (quella che nel linguaggio della politica del
lavoro comunitaria è chiamata oggi "occupabilità"): il diritto
all'informazione su tutte le opportunità di lavoro esistenti, il diritto
alla formazione specificamente mirata a ciascuna di esse, il diritto
all'assistenza per la mobilità geografica eventualmente necessaria per
aumentare le possibilità di occupazione. In questo quadro, i lavoratori più
deboli dovranno essere aiutati a neutralizzare l'handicap di cui soffrono
(di natura sociale, culturale, familiare o psico-fisica) con un sovrappiù di
servizi di informazione, formazione mirata e assistenza alla mobilità: una
politica attiva volta a garantire pari opportunità effettive per tutti i
lavoratori e le lavoratrici nel mercato.
Va inoltre riscritta la parte dello Statuto relativa alla rappresentanza
sindacale nei luoghi di lavoro: occorre garantire un censimento periodico
dei consensi raccolti tra i lavoratori da ciascuna organizzazione o
coalizione sindacale, perché sia possibile - in caso di dissenso tra le
organizzazioni - attribuire efficacia generale al contratto collettivo
stipulato da chi effettivamente rappresenti la maggioranza dei lavoratori
interessati. L'intervento legislativo su questo terreno deve tuttavia
evitare di dar vita nei luoghi di lavoro a organismi di rappresentanza
diversi dalle associazioni sindacali; deve inoltre rispettare e rafforzare
autonomia e piena libertà di queste ultime nella determinazione delle
modalità di scelta dei propri rappresentanti sindacali aziendali e nella
regolazione dei propri rapporti con essi. Anche su questo terreno occorre
combattere il formarsi di compartimenti stagni tra lavoratori protetti e non
protetti: tutti coloro che collaborano continuativamente con l'impresa
devono avere lo stesso diritto di voto, la stessa libertà di aggregarsi
sindacalmente come preferiscono e di determinare così la composizione delle
rappresentanze sindacali aziendali. Occorre infine studiare le forme per
dare voce anche ai disoccupati, ai precari e agli irregolari al tavolo della
negoziazione dei contratti collettivi nazionali.
Quanto alla disciplina dei licenziamenti, essa oggi assicura una protezione
piena soltanto a metà dei lavoratori potenzialmente interessati; e il numero
dei protetti va riducendosi ogni giorno che passa: secondo i dati più
recenti, su cinque neo-assunti solo uno oggi gode di un regime di stabilità,
mentre agli altri quattro è riservato, in varie forme, un regime di
sostanziale precarietà. Deve dunque essere superata la netta separazione tra
lavoratori protetti e lavoratori precari, che sempre più caratterizza il
mercato del lavoro italiano, e in particolare deve essere superata la
distinzione fra "subordinati" e "parasubordinati": occorre per questo
istituire una unica "rete di sicurezza" essenziale, garantita a tutti coloro
che prestano la propria opera continuativamente e prevalentemente per
un'impresa, lasciando che al di sopra di questo standard inderogabile,
comune a tutto il mondo del lavoro, siano l'azione sindacale e la
contrattazione collettiva e individuale a costruire liberamente modelli
diversi di organizzazione e tutela del lavoro, adatti e adattabili alle
esigenze di ciascun settore produttivo, di ciascuna azienda o categoria di
aziende, ma anche di ciascun lavoratore o categoria di lavoratori. A questi
deve essere assicurata, in particolare, la possibilità effettiva di
scegliere tra la sicurezza che è data da un rapporto di lavoro stabile (con
i costi che questa comporta) e la sicurezza che è data da una maggiore
capacità di muoversi nel mercato.
Occorre, in conclusione, che nel mercato del lavoro possano confrontarsi e
competere tra loro diversi modelli di impresa e di rapporto tra imprenditori
e lavoratori: al lavoratore deve essere data la possibilità effettiva di
scegliere, in ciascuna situazione concreta, il tipo di rapporto che meglio
corrisponde alle sue caratteristiche personali e professionali di
versatilità o di specializzazione, di mobilità o difficoltà di spostamento,
di propensione o avversione al rischio. Se questo è l'obbiettivo, alle
vecchie tecniche di protezione, consistenti nell'imposizione rigida e
inderogabile di un modello standard di rapporto di lavoro, devono
affiancarsi e gradualmente sostituirsi tecniche nuove volte ad aumentare le
possibilità effettive di scelta di ciascun lavoratore nel mercato e a
compensare i difetti di dotazione dei lavoratori più deboli con la fornitura
ad essi di servizi aggiuntivi di formazione, informazione e assistenza alla
mobilità, capaci di moltiplicare le loro opportunità di lavoro e sottrarli
all'emarginazione.
2. Le nuove politiche per un obiettivo antico: la piena occupazione.
L'Italia, all'inizio degli anni '70, era tra i paesi meno terziarizzati. Ora
sta recuperando il ritardo. Fra le attività di servizio, quelle ad alta
intensità di conoscenza presentano uno straordinario dinamismo: nel 2000,
circa il 42% dei servizi acquistati dalle imprese è costituito da servizi
avanzati (telecomunicazioni, informatica, intermediazione monetaria e
finanziaria, ricerca e sviluppo). Una quota più che doppia rispetto a quella
del 1992!! Dov'è che si accentua il divario tra la situazione italiana e
quella media dell'U.E.? Nel minore sviluppo dei servizi alle famiglie, per i
quali l'Italia è cenerentola in Europa. I carichi familiari in Italia
continuano a gravare pressoché esclusivamente sulle donne, a tal punto che
il tasso di occupazione femminile si riduce drasticamente al loro aumentare,
e in particolare all'aumentare del numero dei figli. In generale, la
trasformazione dell'apparato produttivo italiano sembra avvenire lungo linee
che hanno a che fare con la produzione, la distribuzione e la gestione della
conoscenza, con la creazione e la gestione d'impresa, con lo sviluppo dei
servizi sociali e personali, con la diffusione e la gestione delle
tecnologie. Anche le analisi statistiche ci confermano quello che abbiamo
intuito da tempo: questo processo di modernizzazione tende ad ampliare le
disuguaglianze tra i redditi da lavoro, con la crescita del numero dei
lavoratori a basso e bassissimo salario: nel 1995 - i dati più recenti - i
lavoratori con una retribuzione oraria pari o inferiore al 50% della media
nazionale ammontavano al 2,2% degli occupati, e in essi è più forte la
componente femminile, che nel nord est raggiungeva ben il 6%
dell'occupazione femminile totale. E' tuttavia importante rilevare che il
settore dei servizi - nettamente il più dinamico - è caratterizzato da
salari mediamente più elevati rispetto al settore industriale.
E' possibile derivare da questi dati qualche indicazione sopra un obiettivo
"principe" della piattaforma riformista: la piena occupazione. Se le
tendenze sono quelle richiamate, la piena occupazione in Italia è
raggiungibile nel medio periodo attraverso due scelte politiche convergenti:
più scuola e formazione e più servizi alle famiglie. Due obiettivi a loro
volta conseguibili solo attraverso l'ulteriore crescita del protagonismo
economico, sociale e civile della donna.
Nella stagione di governo che ci sta alle spalle abbiamo investito molto
sulla scuola e sul sistema formativo, facendola oggetto di un disegno
organico di riforma. L'obiettivo di questa strategia riformista - che ha
provocato reazioni conservatrici, ma ha anche suscitato energie e impegno -
era quello di accrescere la "sicurezza" dei cittadini-lavoratori-consumatori
di domani; e di mettere questa sicurezza al servizio di nuovi e più elevati
livelli di autonomia e libertà individuali.
La scelta strategica, in questo campo, è stata ed è quella dell'autonomia
degli istituti scolastici, rispetto alla quale siamo stati avari di risorse
economiche (il solito vizio centralistico della sinistra) e di impegno
politico diffuso sul territorio, a partire da quello del sistema delle
istituzioni locali. Non abbiamo ridisegnato il nostro modello di governo
locale alla luce della nuova priorità - diffondere sicurezza e uguaglianza
attraverso la formazione, così come facemmo a metà degli anni '70 con i
servizi sociali - e abbiamo lasciato autonomia scolastica e obbligo
formativo fino a diciotto anni nelle sole mani degli insegnanti più
impegnati e degli studenti più consapevoli, entrambi vittime predestinate
della burocrazia di quella che resta - con poco meno di un milione di
addetti - la struttura con più personale che esista al mondo. Così, quando
le risorse finanziarie a disposizione sono un po' aumentate, ci siamo
ritrovati a gestirle secondo un modello centralistico e gerarchizzato
(addirittura, il "concorsone") che "saltava" e negava in radice l'autonomia.
E' dentro questo vuoto creato dal nostro mancato impegno riformista
"diffuso" che ha potuto trovare alimento non il consenso dei più abbienti
verso la privatizzazione della scuola pubblica o la riproposizione
dell'eterno conflitto tra laici e cattolici, ma la tendenza della parte più
ricca della popolazione ad "investire privatamente" in formazione e a
reclamare agevolazioni fiscali per quell'investimento. La formazione è un
bene così prezioso da rendere impossibile che lo Stato sia l'unica agenzia
capace di fornirla. Ma una cosa è la costruzione di un complesso sistema
formativo che abbia al suo centro la scuola pubblica, fortemente radicata
nel territorio, espressione culturale di ciascuna comunità e capace di
produrre padronanza dei linguaggi necessari per il "dialogo" globale. Un
sistema che si integri con gli ulteriori investimenti di ciascuno sulla sua
specifica e personale formazione continua. Altra cosa è la destrutturazione
egoistico-corporativo-confessionale che sembra implicita nella proposta di
bonus scolastico del centrodestra.
Nell'opporsi a questa proposta - a partire da quella che punta al
travolgimento della riforma dei cicli - il centrosinistra dovrà saper
colmare questo limite della propria iniziativa riformista di governo: a ben
vedere, è la formazione a tenere assieme - in una convincente strategia di
governo delle innovazioni sociali, economiche e civili in atto - la
questione della "occupabilità", la questione del rafforzamento dei diritti
individuali e delle libertà civili, la questione della sicurezza e quella
della competitività nell'economia globale. Blair ha trionfato in una
campagna elettorale che ha avuto per slogan "più scuole e più ospedali per
tutti": qualcuno - alla ricerca di giustificazioni per le proprie
sciocchezze sul nuovo corso del Labour britannico - ha sentenziato: "vince
perché non parla più di terza via, ma svolta a sinistra". Non è più semplice
vedere in questo slogan elettorale la traduzione di un'innovazione della
cultura politica e della piattaforma programmatica della sinistra, che
determina un nuovo equilibrio tra domanda di libertà e ricerca di sicurezza
degli individui? Dunque, l'obiettivo della piena occupazione è perseguibile
solo riconoscendo priorità alle politiche per la formazione. Ma l'iniziativa
per avere cittadini - e soprattutto cittadine - più informati e meglio
formati, e dunque più "forti", deve accompagnarsi a quella per accrescere la
domanda di servizi alla famiglia forniti dal mercato, cioè fuori dal gravame
imposto alla donna all'interno della famiglia stessa.
E' questa una condizione indispensabile per il conseguimento di due
obiettivi, entrambi funzionali alla piena occupazione: in primo luogo,
aumentare la partecipazione delle donne alle forze di lavoro (qui è la vera
"barriera" che ci fa anomali in Europa), consentendo fra l'altro al sistema
produttivo di giovarsi della crescita dei livelli di scolarizzazione che
interessano le donne stesse; in secondo luogo, creare le condizioni per
l'espansione dell'occupazione in un campo - quello dei servizi alle persone
e delle attività di cura, specie per gli anziani - che è notoriamente ad
alta intensità di lavoro. Le politiche di governo di questi anni hanno
avvertito questa esigenza e hanno cercato di soddisfarla: soprattutto
attraverso le politiche fiscali, sia sul versante contributivo (l'IRAP e il
radicale mutamento che ne è seguito nel finanziamento del servizio sanitario
nazionale), sia sul versante tributario in senso stretto. E tuttavia -
specie in occasione dell'ultima Legge Finanziaria, la prima di un effettivo
regime di riconquistata "libertà" delle scelte di bilancio - si è
manifestata una difficoltà seria a riconoscere la priorità del tema che
stiamo affrontando: siamo riusciti a costruire un mix equilibrato tra
famiglie e imprese, nella individuazione dei destinatari delle riduzioni di
pressione fiscale, ma non abbiamo poi saputo scegliere, tra le famiglie, il
sostegno per quelle che si trovano ad affrontare un problema di assistenza e
cura ad un minore, ad un anziano. Un problema che cambia la qualità della
vita di quella famiglia - e quindi influenza le scelte di vita di ogni suo
singolo componente - assai più di altri fattori (ad esempio, il livello
assoluto del reddito), cui abbiamo dedicato e dedichiamo maggiore
attenzione.
3. Legalità, processo, garanzie.
Al centro della nostra impostazione riformista sta la preoccupazione di
coniugare due distinte esigenze: quella dell'efficienza del "servizio
pubblico-giustizia" e quella della garanzia dei cittadini coinvolti in
vicende giudiziarie.
L'efficienza deve esprimersi sul piano della accessibilità, in condizioni
non discriminatorie, per la grande massa dei cittadini: proprio in analogia
al concetto di "servizio pubblico" riferito ai servizi di pubblica utilità
in genere. L'affermazione comporta il rifiuto di prospettive di efficienza
limitate a categorie di utenti più abbienti, e quindi di strumenti
"riservati", "privilegiati": prospettive negatrici di "quell'egualitarismo
che riconosce gli individui" che rappresenta un connotato essenziale
dell'"offerta" democratica dei servizi sociali fondamentali. Più
precisamente, si deve in linea di principio combattere la sempre maggiore
divaricazione, rispetto alle concrete possibilità di efficiente tutela in
giustizia, alla quale si assiste in rapporto alle condizioni economiche dei
cittadini. Ma qui, un approccio pragmatico, anzi realistico - anch'esso
tipico di un'impostazione seriamente riformista - deve necessariamente
distinguere fra giustizia civile e giustizia penale (con uno sguardo anche
alla giustizia amministrativa).
3.1 Giustizia civile.
La piaga dei tempi, e (anche in ragione di questi), dei costi complessivi
dei processi, frutto dell'attuale inefficiente organizzazione, va
combattuta, nell'interesse della collettività degli utenti, non certo
privilegiando l'attuale "naturale" deriva verso la scissione fra una
giustizia arbitrale, rapida ed autorevole - i costi della quale sono
tuttavia alla portata delle parti più abbienti (in particolare, e pur non
esclusivamente, le imprese medio-grandi) - ed una giustizia di Stato di
defatigante lentezza per tutti "gli altri". Una giustizia intrinsecamente
"ingiusta", perché programmaticamente a senso unico: tipicamente punitiva
delle attese dei creditori e, in quanto tale, inefficiente sul piano
economico. Si deve quindi operare per rafforzare l'efficienza della
giustizia "servizio pubblico": e solo quando questo obbiettivo sarà
conseguito, l'opzione dei costosi arbitrati perderà il suo attuale
significato gravemente discriminatorio.
A questo fine si dovrà operare una riforma della procedura civile basata su
tre essenziali capisaldi:
a) l'incentivazione (anche economica) di composizioni "conciliative" delle
liti attuali e potenziali.
b) la restrizione degli spazi processuali (e quindi anche temporali) per
presentare argomenti e prove.
c) la eliminazione del grado di appello rispetto al merito della
controversia, riservando l'impugnazione a motivi di diritto e vizi di
legittimità della decisione di primo grado.
Rispetto a queste innovazioni, le manifeste ragioni di efficienza sub specie
di speditezza non trascurano quelle essenziali di garanzia di giustizia.
3.2 Giustizia penale.
Anche qui e con ancor maggiore preoccupazione il valore dell'efficienza va
inteso, anzitutto, nella prospettiva del "servizio pubblico", evitando ogni
prospettiva che conduca - in una materia in cui sono in gioco la libertà e
l'onore delle persone - a differenziazioni sostanziali, in concreto, tra
cittadini abbienti e non abbienti rispetto all'esercizio del diritto di
difesa. D'altra parte, va con pari preoccupazione garantita la tutela delle
parti offese dai reati, e l'interesse della collettività all'accertamento
delle responsabilità e all'applicazione delle sanzioni previste per illeciti
gravemente lesivi di rilevanti interessi generali (come la verità e la
trasparenza dei bilanci delle imprese) e beni della vita (come la vita e
l'integrità fisica e psichica, contro ogni tipo di violenza alle persone; o
come rilevanti interessi patrimoniali, contro ogni tipo di frode od
approfittamento).
Rispetto a queste esigenze, si deve anzitutto perseguire una più robusta
"normalità" della elaborazione e dell'applicazione della legge penale.
Ripugna allo spirito garantista la pratica di previsioni normative
eccessivamente discrezionali, volutamente imprecise, espressione di una
"rincorsa emergenziale" che dà per persa l'efficacia, appunto, dei principi
classici del moderno diritto penale dei paesi più progrediti nella tutela
dei diritti del cittadino. E parimenti ripugna il ricorso abituale ai mezzi
di "prova" altamente pericolosi sul piano delle garanzie, come quello dei
cosiddetti pentiti.
Ciò detto, tuttavia, diciamo con forza che il nostro non è garantismo
strumentale ad una giustizia impotente. La nostra ispirazione garantista
(sia sotto il profilo della previsione legislativa, sia sotto quello
dell'applicazione, a partire dalla fase investigativa) si accompagna alla
rivendicazione di un maggiore impegno - economico ed organizzativo- dello
Stato nell'assicurare speditezza dei processi (più giudicanti) ed incisività
e professionalità delle indagini (più, e sempre più qualificati,
inquirenti). Se ad esempio si deve ,come noi crediamo, limitare
drasticamente il ricorso ai pentiti, si deve corrispondentemente rafforzare
l'attrezzatura investigativa, sia sotto il profilo del numero, sia sotto
quello dell'addestramento della Polizia Giudiziaria e dei magistrati
requirenti. Una giustizia normale non dev'essere una giustizia debole.
E una giustizia penale normale non deve neppure essere una giustizia che
privilegia i più abbienti. Ci riferiamo, qui, all'esigenza di rendere ben
più serio l'istituto del gratuito patrocinio, prevedendo e assicurando che
esso rappresenti un effettivo servizio civico degli avvocati.
3.3 La giustizia amministrativa.
Noi pensiamo che sia tempo di rivedere - anzi, di abolire - la distinzione
tra giustizia ordinaria e giustizia amministrativa. La prima vede i
cittadini come portatori di diritti, la seconda come portatori di "interessi
legittimi" rispetto ai quali la Pubblica Amministrazione ha una potestà
"superiore" di incidenza, connotata di discrezionalità di modi di
intervento, sulle situazioni soggettive. Questa distinzione ha fatto il suo
tempo. I diritti del cittadino sono e restano diritti eguali, meritevoli di
eguale tutela, chiunque sia l'interlocutore. Questa, in estrema sintesi, la
posizione di chi non ammette che, ad esempio, la libertà economica, oggetto
di un diritto costituzionale, sia soggetta a limitazioni non scaturenti
esclusivamente dalla legge, bensì, appunto, dalla "discrezionalità"
amministrativa: e che, di conseguenza, anche in sede giurisdizionale la
tutela del cittadino sia meno piena - sotto il profilo degli strumenti di
difesa e di contraddittorio - nei confronti della Pubblica Amministrazione.
4. La laicità dello Stato.
E' in corso un'offensiva volta ad approfittare delle domande di nuovi
diritti individuali che emergono - spesso in una versione estremizzata -
dallo sviluppo scientifico, economico, sociale e civile, per imporre una
vera e propria regressione del processo di affermazione del principio di
laicità dello Stato. Anche se ciò non avviene senza ostacoli e resistenze,
il centro destra ha teso a farsi interprete di questa offensiva. E' dunque
indispensabile una reazione dell'Ulivo e della sinistra.
Nella prima fase della sua esperienza l'Ulivo ha affrontato il nodo cruciale
della laicità dello Stato in modo limitativo e culturalmente povero,
ricorrendo in sostanza alla "libertà di coscienza" dei singoli eletti di
fronte alle scelte politico-legislative che si venivano proponendo: una
formula suggestiva, che tuttavia rinunciava in partenza alla possibile
ricerca e alla conseguente individuazione di soluzioni condivise dalla
coalizione.
Si tratta di un approccio che va superato, attraverso una ricerca
politico-culturale che deve fondarsi su alcuni criteri fondamentali:
1. La libertà di coscienza da valorizzare primariamente non è quella degli
eletti, ma quella dei cittadini, rispetto ai quali il diritto posto dallo
Stato - a partire da quello penale - si pone come garanzia minima condivisa,
sulla base della imprescindibile distinzione tra diritto e morale;
2. Negli ambiti in cui emerge comunque la necessità di vincoli alle
soggettività individuali, rispetto alle nuove possibilità aperte dalla
scienza, si impone non solo una ricerca di coalizione, ma anche uno sforzo
di costruire intese più ampie, poiché si tratta di definire le risposte
legislative - possibili in questa fase storica - alle nuove chances di
allargamento delle libertà delle persone, aperte dallo sviluppo della
scienza e della tecnologia. Risposte che, per definizione, non dovrebbero
mai essere interamente affidate a maggioranze limitate e facilmente
reversibili;
3. Il necessario riconoscimento di nuovi diritti individuali e di nuove
formazioni sociali (convivenze di fatto, unioni diverse dal matrimonio,
coppie omosessuali) deve scaturire dallo sforzo creativo di adeguare
l'ordinamento ai mutamenti culturali e sociali in atto, combattendo al
contempo la pretesa di voler equiparare in modo indifferenziato le nuove
realtà a quelle tradizionali .
5. Ulivo e riformismo istituzionale.
5.1- Legge elettorale per la Camera: mantenere questi collegi uninominali
maggioritari e prevedere un secondo turno nazionale.
Se l'Ulivo è il patrimonio più prezioso che il centro-sinistra possiede, sia
per ragioni di sistema, sia per ragioni di parte, l'opposizione dovrebbe
impegnarsi nel mantenere inalterato l'impianto di fondo del sistema
elettorale della Camera, col 75% di collegi uninominali maggioritari, che
non impedisce certo il raggiungimento di solide maggioranze, come pure,
concretamente, gli attuali collegi, in cui la coalizione deve semmai
seriamente radicarsi.
Saranno pertanto da respingere con fermezza quelle iniziative dell'attuale
maggioranza, la quale, conscia di avere la propria forza nei partiti e la
propria debolezza nella coalizione (la Casa della Libertà ha infatti preso
sul maggioritario un milione e mezzo di voti in meno rispetto al
proporzionale), tenterà di ridurre la quota dei collegi maggioritari - se
non di sopprimerla - per adottare sistemi analoghi a quelli delle Regioni o
dei Comuni. Sarebbe poi particolarmente deleterio a livello nazionale
restaurare quel corruttore sistema delle preferenze in collegi provinciali o
pluriprovinciali che, spingendo alla moltiplicazione delle spese elettorali
e alla disgregazione interna dei partiti, è stato alla radice di molti dei
fenomeni legati a Tangentopoli.
Se si intende completare il sistema elettorale, eliminando alla radice la
possibilità di mancanza di maggioranze quantitativamente deboli (inferiori
al 55% dei seggi), la soluzione più ragionevole oggi appare quella di
inserire un eventuale secondo turno nazionale tra i due candidati-Premier
che abbiano avuto più seggi al primo turno, utilizzando come "premio di
governabilità" una parte dei seggi oggi destinata al recupero proporzionale.
5.2- Forma di governo: stabilizzare i Governi di legislatura e istituire i
nuovi contrappesi.
Il punto debole della situazione attuale non sta nella legge elettorale,
quanto piuttosto nella possibilità di modificare il responso degli elettori
(già rafforzato in termini politici con l'inserimento dei candidati-Premier
sulla scheda) attraverso combinazioni parlamentari in corso di legislatura,
senza tornare in modo vincolante alla loro sovrana decisione. Come si è
visto nella scorsa legislatura, tali operazioni politiche, pur
costituzionalmente legittime, finiscono col dar vita a Governi più deboli,
che non possono vantare una derivazione popolare e che quindi sono perenne
ostaggio delle oligarchie a cui la loro vita e la loro morte è legata,
colpendo di conseguenza alla radice la credibilità del Governo di fronte al
Paese.
Se questo è l'obiettivo, appaiono inaccettabili tutti quegli strumenti
istituzionali (a cominciare dalla "sfiducia costruttiva") che confermano la
possibilità di sottrarsi al mandato popolare e appaiono viceversa da
introdurre quegli strumenti, come il potere di scioglimento in capo al Primo
Ministro e la "sfiducia distruttiva", che - sulla base del modello
neo-parlamentare, di un parlamentarismo che rispetta la centralità degli
elettori, elaborato dalla sinistra democratica francese - sono stati
proficuamente importati in Comuni, Province e Regioni.
A bilanciamento di queste limpide conseguenze da trarre rispetto all'attuale
legislazione elettorale e all'uso volutamente ancora più chiaro in senso
maggioritario che ne hanno fatto gli elettori, e per rafforzare l'Ulivo
quale opposizione che ambisce a tornare al Governo, non compiacendosi
affatto di tale momentanea collocazione, occorre varare nel contempo un
robusto Statuto dell'Opposizione: anzitutto il riconoscimento in quanto tale
(e del relativo leader) per via di interpretazione e di modifica dei
Regolamenti parlamentari che anacronisticamente continuano a considerare
solo i singoli Gruppi - e non anche le coalizioni - come effettivi soggetti.
In secondo luogo è da perseguire la modifica di quei quorum che appaiono
indissolubilmente legati ad una scelta proporzionalistica che di per sé
spingeva ad accordi: l'innalzamento di quelli relativi all'elezione dei
giudici costituzionali (al contrario di quanto proposto dal centro-destra),
dei membri "laici" del Csm, del Presidente della Repubblica. Il consistente
abbassamento del quorum relativo al voto sulle commissioni parlamentari di
inchiesta e di quello sul referendum abrogativo che, altrimenti, potrebbero
essere bloccati da comportamenti ostruzionistici della maggioranza, sotto
forma di rifiuto nel primo caso e di invito all'astensionismo nel secondo;
norme più rigorose su ineleggibilità, incompatibilità e sulla reiterabilità
dei mandati di governo per prevenire e reprimere concentrazioni di potere
indebitamente prolungate nel tempo e commistioni di interessi pubblici e
privati.
Nel nostro contesto di debolezza dello Stato, di fronte alle ipotesi di
trasformazione federale, rispetto ad una cultura politica del centro-destra
non ancora del tutto assimilata all'idea che chi vince può governare sin in
fondo, ma senza spaccare il Paese e quindi senza forzature unilaterali (come
quella già richiamata a proposito dei criteri elettivi dei giudici
costituzionali), resta quanto mai valida una figura di Capo dello Stato di
garanzia (rimodulandone, oltre al quorum, il collegio elettorale, per metà
espressione del parlamento e per metà della dimensione regionale), senza
consentirgli intromissioni indebite sull'indirizzo politico (nomina del
Governo e scioglimento anticipato) e col rafforzamento dei poteri di
controllo, di consiglio e di nomina di garanti e di autorità indipendenti.
Forme presidenzialistiche o semi-presidenzialistiche esporrebbero invece a
pericoli di sommare in modo ambiguo poteri di governo e di garanzia, pretese
di risolvere direttamente i problemi e mediazioni ambigue con le altre
istituzioni, che porterebbero a gravi rischi di paralisi. L'opposizione non
deve neanche involontariamente essere subalterna a quelle ipotesi, evitando
di appellarsi costantemente al Capo dello Stato, anziché all'opinione
pubblica, nei casi in cui si trovi di fronte ad iniziative del Governo in
cui vi sia solo il dubbio della prevaricazione istituzionale e non elementi
tali da comportare effettivamente un suo intervento. Una prassi attivistica
del Capo dello Stato potrebbe essere poi utilizzata per legittimare lo
slittamento a forme poco equilibrate di presidenzialismo.
5.3- Completare il federalismo.
Pur con tutti i suoi indubbi limiti, la legge di revisione costituzionale va
approvata con grande consenso nel referendum popolare di conferma. Il suo
fallimento non comporterebbe certo un'interpretazione evolutiva del testo
vigente e risalente al '48, ma piuttosto ulteriori iniziative non meditate
da parte dell'attuale maggioranza.
I due principali punti deboli vanno però affrontati con coraggio e
sollecitudine dopo il referendum. Si tratta anzitutto della modifica del
Senato sia nella composizione (con senatori eletti dai cittadini
contestualmente ai rispettivi consigli regionali) sia nei poteri (eliminando
il rapporto di fiducia col Governo, mantenendo un ruolo paritario solo per
le leggi costituzionali, di revisione costituzionale e per le leggi di
principio sulla legislazione concorrente). Si tratta poi di affidare a tale
Senato l'elezione di metà dei giudici costituzionali di estrazione
parlamentare, mentre l'altra metà resterebbe alla prima Camera.
Infine il tema del federalismo non può non richiamare anche quello
sovra-nazionale, il futuro dell'Unione europea: tutte le riflessioni su di
essa e sulla mancata globalizzazione della democrazia dovrebbero condurre ad
accettare rapidamente un necessario punto fermo, l'elezione popolare diretta
del Presidente della Commissione in connessione alle elezioni del parlamento
europeo. Si potrebbe dare concreto avvio a questa radicale riforma
prevedendo che alle prossime elezioni europee - attraverso un'intesa
politica tra PSE e PPE - il nome del rispettivo candidato-Presidente della
Commissione compaia sulla scheda, a fianco delle liste dei rispettivi
candidati. Solo così si è riportati al vero federatore, il popolo sovrano:
altrimenti la costruzione europea sarà costretta in giochi oligarchici più o
meno efficaci, ma comunque incomprensibili, e quindi inefficienti.
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